Il 6 agosto del 1945 gli Americani sganciarono la prima bomba nucleare su Hiroshima e tre giorni dopo su Nagasaki. In Giapponese Hibakusha significa letteralmente “coloro che sono stati colpiti dal bombardamento”, sono le persone sopravvissute allo scoppio della bomba atomica. Le loro testimonianze, così come le fotografie e gli oggetti conservati, servono a ricordare al mondo quello che c’era e quello che, dopo pochi secondi, non c’è stato più. Abbiamo scelto di raccontare tre storie i cui protagonisti sono bambini innocenti che si sono improvvisamente ritrovati soli e nella distruzione più totale; storie emblematiche per raccontare la crudeltà della guerra e delle armi nucleari.
Il bambino in piedi al crematorio
Un bambino porta sulle spalle il corpo senza vita del fratello minore, nella città devastata di Nagasaki dopo lo scoppio atomico. Questa immagine è intitolata “Bambino in piedi al crematorio” ed è tristemente esaustiva dell’inferno provocato dalle armi nucleari.
Raccontiamo la sua storia attraverso il punto di vista del fotografo J.O’Donnell, cittadino statunitense, che dopo la fine della guerra nel 1945, fu inviato sull’isola giapponese di Kyushu per fotografare lo sbarco delle forze di occupazione americane. Nelle successive tre settimane venne trasferito a Hiroshima e Nagasaki dove trascorse i successivi sei mesi a fotografare la devastazione.
O’Donnell descrisse con queste parole lo scenario di fronte ai suoi occhi:
[…] Nagasaki era difficile da vedere perché era circondata da una serie di creste. Man mano che ci avvicinavamo, non era solo l’odore a diventare opprimente, ma anche il silenzio. Non c’era niente: niente uccelli, niente vento che soffiava, niente che ti facesse pensare che qui una volta c’era stata una vera città. Quando ho raggiunto la cima del crinale, ho visto una minuscola scuola fatta di blocchi di cemento, la maggior parte ancora in piedi. Sono entrato nell’aula, ed eccoli lì, tutti ancora seduti ai loro banchi, una trentina di bambini
ridotti in cenere.
Quando sono tornato fuori, ho notato che il terreno che portava alla scuola era stato in qualche modo tagliato via. […] Quasi nessuno ha detto niente. Con l’eccezione degli uomini della mia unità, ho visto pochissimi altri membri del personale dell’esercito o della marina americana. La gente voleva stare alla larga da quello che avevamo fatto. Nessuno dalla nostra parte sapeva bene come reagire alla bomba atomica, se essere aperto e orgoglioso di essa o riservato e vergognoso.”
Proprio durante la sua ricerca, O’Donnell si ritrova davanti a questi due stoici bambini. Così racconta dell’incontro:
Ho visto passare un ragazzo di circa dieci anni. Portava un bambino sulla schiena. In quei giorni in Giappone si vedevano spesso bambini che giocavano con i loro fratellini o sorelline sulla schiena, ma questo ragazzo era chiaramente diverso. Ho potuto vedere che era venuto in questo posto per una ragione seria. Non indossava scarpe. La sua faccia era dura. La testolina era inclinata all’indietro come se il bambino dormisse profondamente. Il ragazzo rimase lì per cinque o dieci minuti.
Gli uomini con le maschere bianche si avvicinarono a lui e iniziarono silenziosamente a togliere la corda che teneva il bambino. Fu allora che vidi che il bambino era già morto. Gli uomini tennero il corpo per le mani e per i piedi e lo misero sul fuoco. Il ragazzo rimase fermo, immobile, a guardare le fiamme. Si stava mordendo il labbro inferiore così forte che luccicava di sangue. La fiamma ardeva bassa come il sole che tramonta. Il ragazzo si voltò e si allontanò silenziosamente.
— Joe O’Donnell
Questo racconto descrive il destino di migliaia di “orfani della bomba atomica” e le loro lotte per sopravvivere all’indomani della seconda guerra mondiale. A quel tempo a Nagasaki, dopo il bombardamento, molti bambini persero i loro genitori, e proprio come il “Bambino in piedi al crematorio”, furono costretti a trovare la forza dentro se stessi per sopravvivere. Alcuni di loro morirono anni dopo per le conseguenze dovute alla radiazione, altri invece furono costretti a sopportare per tutta la vita le conseguenze fisiche e psicologiche dell’esplosione. Ustioni, malformazioni, leucemie, il peso dello stigma, l’isolamento sociale sono il terribile lascito dell’atrocità delle armi nucleari.
Il triciclo di Shinichi
Il museo della Pace di Hiroshima espone una collezione permanente che, con tanta forza e incisività, trasmette ciò che accadde il 6 agosto del 1945. Ad essere resi fruibili, infatti, sono diversi oggetti personali che appartenevano alle vittime del disastro. Tra questi reperti troviamo il triciclo di Shinichi Tetsutani, 3 anni e 11 mesi, triciclo regalatogli dallo zio marinaio e con cui il bambino stava giocando quando la bomba A esplose. Purtroppo non fu l’unico a perdere la vita: quel giorno morirono anche le sue sorelle, Michiko di 7 anni e Yoko di 1 anno.
Shinichi fu poi seppellito, insieme al suo triciclo, dal padre Nobuo nel giardino di casa. Nello stesso sito Nobuo collocò una piccola statua buddista, il Jizo, patrono dei bambini, che diventò ben presto centro di un rituale mattutino, dove veniva posizionato dell’incenso e offerte delle preghiere. Toshinori Tetsutani, terzo figlio di Nobuo avuto dopo la guerra, era solito osservare il padre compiere questi gesti. Crescendo comprese la profondità di questo rituale, la difficoltà di suo padre nell’elaborare la sua perdita. In una intervista Toshinori si esprime così: “Ogni famiglia ha un metodo per trasmettere la propria esperienza del bombardamento atomico. Per me, è l’immagine della schiena di mio padre mentre pregava, insegnandomi che non possiamo semplicemente dimenticare“.
Decise quindi, in occasione del 73esimo anniversario della bomba e della morte di suo fratello, di raccogliere la sua eredità in quanto hibakusha di seconda generazione e raccontare la storia di suo padre. Come prima cosa, scelse di riesumare il corpo di Shinichi e il piccolo triciclo: le ossa furono trasferite nella tomba di famiglia, mentre il triciclo fu collocato nel museo della Pace di Hiroshima. In questo modo, il giocattolo è diventato un simbolo, rappresentativo non solo delle vite spezzate in quel bombardamento ma anche del profondo amore genitoriale, rimarcando l’impegno di non dimenticare e di fare tutto il possibile affinché non capiti più una seconda Hiroshima.
Successivamente, Toshinori ha raccolto tutte le esperienze e i ricordi tramandati dal padre, cercando di onorare al meglio la sua memoria e preoccupandosi di trasformare il triciclo di Shinichi in una storia, un racconto, che deve stimolarci a riflettere e a compiere un passo in avanti per realizzare un mondo libero dalle armi nucleari.
La storia di Sadako
Secondo un’antica tradizione giapponese, realizzare mille gru di carta farebbe realizzare un tuo desiderio. Questa leggenda è strettamente legata alla storia di Sadako Sasaki.
La bambina aveva due anni quando la bomba atomica colpì Hiroshima. La sua casa si trovava a 1,6 km dall’ipocentro: non fu quindi coinvolta direttamente ma fu esposta alla pioggia nera radioattiva caduta all’indomani dell’esplosione. I racconti degli hibakusha sulle vittime del bombardamento sono terribili, le sofferenze a cui furono sottoposti inimmaginabili; altrettanto gravi, però, si dimostrarono le condizioni delle persone colpite indirettamente come Sadako. La bambina intanto crebbe sana e forte diventando una ragazza.
Amava fare sport e sognava di diventare un’insegnante di educazione fisica. La sua partecipazione alle gare di podismo era un beneficio per tutta la squadra della scuola. Tuttavia, durante una di queste competizioni si sentì improvvisamente stanca, priva di forze. Questa sensazione si acuì fin quando, un giorno, cadde improvvisamente a terra. Preoccupati i suoi compagni e l’insegnante avvertirono subito i genitori e Sadako fu portata in ospedale per fare degli accertamenti. Le venne diagnosticata la leucemia, definita proprio a quel tempo come “la malattia della bomba atomica”. Il male a cui era stata sottoposta diversi anni prima era diventato visibile.
Durante la sua permanenza in ospedale fu la sua amica di scuola, Chizuko, a raccontarle la leggenda delle gru di carta. La gru è un uccello sacro, le aveva raccontato, che vive per cento anni; se una persona malata realizza mille gru di origami allora guarirà presto. Sadako voleva guarire, per questo era decisa a costruire queste gru. Nonostante il progredire della malattia, si fece conoscere in tutto l’ospedale, non tanto per la ricerca continua di carta da piegare ma soprattutto per la sua gentilezza e disponibilità. Era di volta in volta accompagnata dai parenti e dai compagni di scuola, i quali purtroppo avevano già perso molti amici o familiari a causa della bomba ed erano ben consapevoli dei rischi a cui andava incontro la loro amica. Di fatto, dopo otto mesi di ricovero in ospedale e dopo aver piegato oltre mille gru di origami -secondo quanto ha riportato la famiglia- Sadako morì il 25 ottobre 1955.
Dopo la sua scomparsa furono proprio i suoi compagni di scuola a raccoglierne l’eredità. Dopo tre anni dalla morte di Sadako, con i fondi raccolti da oltre tremila scuole di nove paesi stranieri, fu innalzato un monumento in memoria dei bambini vittime delle armi nucleari, noto come Children’s Peace Monument, collocato nel centro del Parco della pace di Hiroshima, vicino al punto in cui cadde la bomba. Alla base della statua è incisa la scritta:
“Questo è il nostro grido, questa è la nostra preghiera, pace nel mondo”
Le gru di origami, costruite da Sadako ma realizzate da tutti i suoi compagni, sono ad oggi un simbolo di pace e solidarietà. Da questo gesto è nato un movimento internazionale per la pace dei bambini che si rinnova ogni giorno: ogni anno, circa dieci milioni di gru di carta vengono offerte al Children’s Peace Monument da tutto il mondo.