Già dai tempi del Progetto Manhattan si sono cominciati a costruire siti e installazioni per produrre su grande scala plutonio e uranio “arricchito”, elementi necessari per costruire ordigni nucleari. Questi luoghi erano spesso interdetti ai civili, che però non vi abitavano troppo lontano. Gli addetti ai lavori invece vivevano nei pressi delle basi nucleari. Massimo Zucchetti, nel libro L’atomo militare e le sue vittime, afferma: «Queste città nucleari fantasma, dove tecnici e popolazione sono stati costretti a risiedere per anni forzatamente, sono un esempio della scarsissima accuratezza, del basso livello di sicurezza e dello spregio della vita umana che distinguono la tecnologia militare. Le centinaia di test atomici degli anni Cinquanta – Sessanta, condotti principalmente da USA e URSS, oltre che da Francia, Gran Bretagna e Cina, causarono poi danni incalcolabili all’ambiente e alla salute dell’intera umanità. Hiroshima e Nagasaki sono soltanto la punta di un iceberg: le vittime degli esperimenti e delle ricerche nucleari in ambito militare sono innumerevoli» (M. Zucchetti, L’atomo militare e le sue vittime, UTET, Torino, 2008, p. 6). In queste città nucleari segrete, venute alla luce solo dopo che i disastri ecologici che avevano causato non potevano essere più nascosti o giustificati, oltre alla produzione di uranio “arricchito” e di plutonio, si effettuavano test nucleari. Un test nucleare è a tutti gli effetti un’esplosione nucleare, condotta come esperimento. L’esplosione avviene per verificare la potenza dell’ordigno in fase di progettazione o quando esso è già presente in un arsenale.
Molti sono i paesi responsabili di questo tipo di test: Usa, l’ex Unione Sovietica, Regno Unito, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord e secondo alcune fonti anche Israele.
Gli ultimi test nucleari risalgono a pochi anni fa, ricordiamo la Cina e la Francia nel 1996, l’India e il Pakistan nel 1998 e la Corea del Nord nel 2009.
Il test nucleare, se effettuato in atmosfera o sott’acqua, rilascia radioattività. Ne rilascia anche durante i test sotterranei ma tale radioattività rimane “confinata” con la speranza che il sito sia geologicamente stabile. Secondo Greenpeace i test condotti fino a oggi hanno infatti liberato, sia nell’atmosfera che in aree marine, l’equivalente di 29.200 bombe di Hiroshima.
Nel 1963 l’aumento di radioattività nell’atmosfera costrinse le potenze nucleari al trattato PTBT (Partial Test Ban Treaty, Trattato sul bando parziale dei test nucleari) in cui si misero al bando i test nucleari nell’atmosfera, nello spazio e negli oceani, lasciando posto solo alle esplosioni sotto terra: fino a quel momento infatti non ci si era preoccupati degli effetti a lungo termine delle radiazioni anche se alcuni scienziati avevano da tempo messo in guardia i governi, anzi si facevano i test proprio per vederne le conseguenze sulle cose e sulle persone. I fallout di questi esperimenti, cioè la ricaduta radioattiva, si sono distribuiti in maniera più o meno uniforme, ma sono presenti sopra l’intero globo. Le esplosioni sono comunque continuate numerose anche se solo nel sottosuolo. Vale la pena di ricordare che, anche se sotterranee, tali esplosioni non hanno la garanzia di non contaminare in maniera significativa ciò che hanno intorno e di non avere effetti nocivi specialmente a lungo termine, quando i materiali radioattivi inizialmente confinati nel “cratere” sotterraneo creato dall’esplosione potrebbero trovare vie geologiche di diffusione nell’ambiente.
Altri effetti dannosi sono causati dalle scorie nucleari che si vengono a formare dove si ha un’attività nucleare di carattere militare. Un esempio è quello di Mayak, in russo “faro”, uno dei due complessi costruiti dall’ex Urss per l’arricchimento dell’uranio e per la produzione di plutonio. Mayak si trova a sud degli Urali e, nei pressi dell’impianto, vennero costruiti numerosi edifici per gli addetti ai lavori. Nel 1948 il primo reattore militare (di un totale di quattro che furono operativi tra il 1950 e il 1952) iniziò la sua attività che terminò nel 1987. «A Mayak, così come in molti altri siti nucleari militari nel mondo, i provvedimenti per limitare l’inquinamento radioattivo nell’ambiente furono colpevolmente carenti, e i territori intorno al sito furono seriamente contaminati dalla radioattività» (Ibidem, p. 42-43). Oltre a gravi incidenti accaduti negli anni, il danno più grave alla popolazione è dovuto alle scorie. Quelle a bassa contaminazione vennero sistematicamente smaltite scaricandole nel fiume Techa, quelle ad alta contaminazione vennero accumulate in alcuni speciali capannoni dentro delle vasche. Quando nel 1950 le attrezzature per la decontaminazione delle scorie non funzionarono come avrebbero dovuto, ci fu un aumento del rilascio di radioattività nel fiume Techa che salì a livelli elevatissimi. Il fiume era l’unica risorsa idrica di 24 villaggi che si affacciavano lungo le sue sponde: il risultato fu che più di centomila abitanti della zona furono esposti alla contaminazione radioattiva (senza poi dimenticarsi che il Techa è un affluente del fiume Iset, le cui acque giungono fino al mare di Kara, nel mar Glaciale Artico, attraverso il fiume Ob). Le misure di protezione per la popolazione furono scarse e carenti: molti si ammalarono. Ad esempio nella città di Metlino, villaggio che si trova sulle sponde del Techa, all’incirca il 65% della popolazione adulta e il 63% dei bambini hanno manifestato sintomi tipici dell’esposizione prolungata a radiazioni ionizzanti d’intensità anche notevole.