Un movimento di persone comuni verso un’era dei diritti umani

26/01/2018

di Daisaku Ikeda

Il 2017 ha rappresentato un punto di svolta per la pace e il disarmo. Dopo una serie di negoziati alle Nazioni Unite, finalmente in luglio si è giunti all’adozione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons, TPNW), che a oggi è stato firmato da più di 50 nazioni. Quando entrerà in vigore andrà ad aggiungersi ai trattati per la messa al bando delle armi biologiche e chimiche, a completamento del quadro internazionale che proibisce le armi di distruzione di massa.

L’idea di abolire le armi di distruzione di massa, comprese quelle nucleari, è sempre stata nell’agenda dell’ONU sin dalla prima risoluzione adottata dall’Assemblea generale nel gennaio 1946, l’anno successivo alla sua costituzione.
L’adozione di questo storico trattato rappresenta una vera svolta in un campo che ha visto molte battute d’arresto e ostacoli apparentemente insormontabili. Inoltre il Trattato è nato con il forte sostegno della società civile, fra cui i sopravvissuti ai bombardamenti nucleari, gli hibakusha. Il loro contributo è stato riconosciuto con l’assegnazione del premio Nobel per la pace nel 2017 alla Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (ICAN), la coalizione della società civile che si è sempre battuta per la proibizione delle armi nucleari e per un trattato che la sancisse.
Setsuko Thurlow, sopravvissuta alla bomba atomica di Hiroshima, intervenendo alla cerimonia di conferimento del Nobel per la pace, subito dopo la direttrice esecutiva di ICAN Beatrice Fihn, ha dichiarato: «L’umanità e le armi nucleari non possono coesistere. […] Queste armi non sono un male necessario, sono il male assoluto». ((ICAN, 10 dicembre 2017, https://senzatomica.it//notizie/>Discorso di Setsuko Thurlow alla cerimonia di conferimento del Nobel per la pace))
Tale convinzione è condivisa dai membri della Soka Gakkai Internazionale, che hanno lavorato insieme a ICAN sin dalla sua fondazione, in una collaborazione riconfermata lo scorso gennaio quando Beatrice Fihn ha visitato la sede della Soka Gakkai in Giappone.
La crudele tendenza a negare totalmente la dignità umana è alla base dell’idea che giustifica il possesso delle armi nucleari: l’assoluta negazione dell’esistenza di coloro che si considerano nemici e la volontà di eliminarli attraverso un potere distruttivo estremo.
Fu questo il pensiero espresso dal mio maestro, il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda (1900-1958), nella sua dichiarazione per l’abolizione delle armi nucleari formulata nel settembre 1957. In piena guerra fredda, mentre si intensificava la corsa agli armamenti e la minaccia nucleare cresceva in nome di una pace basata sulla deterrenza, Toda dichiarò: «Desidero rivelare e strappare gli artigli che si celano nelle profondità di quelle armi», ((Josei Toda, Dichiarazione contro le armi nucleari, 1957, https://senzatomica.it//documenti-storici/dichiarazione-contro-le-armi-nucleari/.)) condannando la natura disumana delle armi nucleari che mettono a repentaglio il diritto alla vita della popolazione mondiale.
Durante una lezione che tenni cinquant’anni fa (nel maggio 1968), proprio mentre i negoziati per il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (NPT) si avviavano a conclusione, avendo bene in mente la dichiarazione di Toda proposi di andare oltre l’accordo sulla non proliferazione e giungere alla proibizione delle armi nucleari in ogni loro fase e aspetto, dalla produzione alla sperimentazione e all’uso.
Nel 1978, in occasione della prima sessione speciale dell’Assemblea generale dell’ONU sul disarmo, formulai una proposta articolata in dieci punti per il disarmo e l’abolizione degli ordigni nucleari. Inviai poi un’ulteriore proposta in occasione della seconda sessione speciale sul disarmo nel 1982. Dall’anno seguente iniziai a scrivere proposte di pace annuali per celebrare il giorno della fondazione della SGI, il 26 gennaio, un impegno che ho mantenuto negli ultimi trentacinque anni nella speranza di aprire una strada verso la proibizione e l’abolizione delle armi nucleari.
Perché mi sono concentrato così tenacemente sull’individuare una soluzione alla questione nucleare? Perché, come aveva ben compreso Toda, finché queste armi esisteranno l’obiettivo della pace e dei diritti umani a livello mondiale continuerà a sfuggirci.
Un’organizzazione con la quale la SGI ha sviluppato forti legami nell’impegno comune per l’abolizione delle armi nucleari è il movimento Pugwash (Pugwash Conferences on Science and World Affairs). Jayantha Dhanapala, che ne è stato presidente fino al 2017, ha sottolineato che per affrontare la moltitudine di sfide globali che abbiamo di fronte, compresa quella nucleare, è necessaria una bussola morale: «In genere si presume, erroneamente, che il mondo dei valori etici e quello della politica pragmatica siano del tutto separati e non siano mai destinati a incontrarsi. Ma i risultati conseguiti dalle Nazioni Unite dimostrano che può sussistere una fusione fra etica e politica e che proprio tale fusione contribuisce al progresso dell’umanità e alla pace». ((Jayantha Dhanapala, The Importance of the UN as a Moral Compass, IDN-InDepthNews, 23 gennaio 2017, https://www. indepthnews.net/index.php/global-governance/un-insider/924-the-importance-of-the-un-as-a-moral-compass.)) La Dichiarazione universale dei diritti umani (Universal Declaration of Human Rights, UDHR), di cui ricorre il settantesimo anniversario proprio quest’anno, può essere considerata uno dei primi esempi di questo connubio.
In tale contesto, tenendo ben presente il peso della Dichiarazione, desidero esprimere delle riflessioni e offrire alcune prospettive per la risoluzione dei problemi globali affrontando le questioni con un approccio basato sui diritti umani. Sono convinto che un simile approccio, radicato in una preoccupazione profonda per la vita e la dignità di ogni individuo, possa condurre a quella fusione di etica e politica necessaria all’individuazione di risposte efficaci.

[…]

Un mondo libero dalla tragedia

Il movimento per la pace della SGI nasce dalle convinzioni del fondatore e primo presidente Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944) e del secondo presidente Josei Toda, che durante la seconda guerra mondiale opposero una resistenza incrollabile al regime militare giapponese. In La geografia della vita umana, scritto all’inizio del ventesimo secolo, Makiguchi dà voce alle sue preoccupazioni per le tragiche condizioni della popolazione mondiale legate all’espansione del colonialismo: «Nel cercare di assumere il controllo di altri paesi, [le potenze imperialiste] non esitano a commettere le più crudeli atrocità».((Tsunesaburo Makiguchi, Makiguchi Tsunesaburo Zenshu (Opere complete di Tsunesaburo Makiguchi), 10 voll., 1981-1997, Daisanbunmei-sha, Tokyo, vol. 1, pp. 14-15.))
Nel 1930, mentre la crescente militarizzazione del Giappone iniziava a esercitare un grave impatto sul sistema educativo, Makiguchi pubblicò Il sistema educativo per la creazione di valore (tradotto in parte in italiano con il titolo L’educazione creativa), nel quale sosteneva che l’educazione dovrebbe servire ad accrescere le capacità degli studenti di creare valore per la propria felicità e quella della società nel suo complesso. Si mantenne fedele alle sue convinzioni sforzandosi di metterle in pratica anche quando le autorità militariste – attraverso la Legge di mobilitazione nazionale e slogan come “Annulla l’io e servi lo Stato” (giapp. messhi hoko) – iniziarono a stringere nella morsa di un controllo sempre più forte ogni aspetto della vita, dalla politica all’economia, alla cultura e alla religione. La sua critica nei confronti del regime fu severa; sosteneva che «svuotare e annientare l’io individuale è una menzogna. La verità consiste nel ricercare una felicità autentica per sé e per gli altri». ((Ibidem, vol. 10, p. 8.))
Makiguchi non cedette alle pressioni ideologiche delle autorità nemmeno quando fu soppressa la rivista del movimento e la polizia speciale intensificò la sorveglianza alle riunioni. Continuò a parlare pubblicamente e di conseguenza, nel luglio 1943, fu arrestato e incarcerato con l’imputazione di aver violato la legge per la conservazione della pace e per aver commesso atti blasfemi nei confronti dello Shintoismo di Stato e dell’imperatore. Il suo discepolo Toda e altri responsabili dell’organizzazione furono arrestati con lui.
Imprigionato e privato delle libertà fondamentali di espressione, di riunione e di religione, Makiguchi rimase saldo nelle sue convinzioni fino all’ultimo istante e morì in carcere all’età di settantatré anni.
Mandela ha scritto che un nuovo mondo non sarà realizzato da chi si limita a guardare passivamente, ma che «l’onore appartiene a coloro che non dimenticano mai la verità nemmeno nei momenti più tetri, che continuano a provare, che non si fanno mai scoraggiare dagli insulti, dalle umiliazioni e nemmeno dalla sconfitta». ((Nelson Mandela, Conversations with Myself, Farrar, Straus and Giroux, New York, 2010, pp. 175-176. Ed. italiana: Io, Nelson Mandela. Conversazioni con me stesso, Sperling & Kupfer, 2010.))
Se guardiamo unicamente al fatto che Makiguchi morì in carcere, potremmo pensare che i suoi ideali non abbiano mai dato frutti; ma la sua visione fu mantenuta viva da Toda, che affrontò i sacrifici della prigionia insieme a lui.
Quando sullo sfondo delle crescenti tensioni della guerra fredda scoppiò la guerra di Corea, più che per le questioni di politica internazionale Toda espresse una sentita preoccupazione personale: «Non è mia intenzione dibattere di vittoria o sconfitta nella guerra o dei pro e contro delle varie politiche e ideologie; ciò che mi addolora profondamente è il pensiero che a causa di questa guerra un enorme numero di persone perderà il marito o la moglie, che tantissime persone cercheranno disperatamente i figli o i genitori che hanno perduto».((Josei Toda, Toda Josei Zenshu (Opere complete di Josei Toda), 9 voll., 1981-1990, Sekyo Shimbunsha, Tokyo, vol. 3, p. 74.))
E ancora: «Le persone non hanno un posto dove andare. Niente arreca maggiore disperazione che perdere ogni speranza per la patria amata». ((Ibidem, p. 78.))
Come nel caso di Makiguchi, anche Toda era profondamente angustiato per le tragiche condizioni delle persone comuni. E guardò alla Rivolta di Ungheria del 1956 dallo stesso punto di vista. Conosceva bene la storia politica che aveva condotto alla sollevazione, ma ciò che più lo preoccupava era l’immensa sofferenza dei cittadini che lo portò a dichiarare: «È mio fervido desiderio costruire il prima possibile un mondo libero da simili tragedie»; ((Ibidem, p. 289.)) era il voto risoluto di creare un movimento popolare che portasse a una vera trasformazione.
Toda tradusse questa convinzione nella sua idea di “cittadinanza globale” (giapp. chikyu minzokushugi, lett. nazionalismo globale), la creazione di un mondo in cui le persone di qualsiasi nazionalità non vedessero mai calpestati i loro diritti e interessi. Sottolineò che le armi nucleari, negando il diritto fondamentale di vivere, rappresentano un intollerabile male assoluto, e sette mesi prima di morire pronunciò la sua Dichiarazione per l’abolizione delle armi nucleari, affidando ai giovani della mia generazione la missione di aprire una strada che conducesse alla loro proibizione.
La SGI, nel suo operato per realizzare il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, ha sempre posto l’accento su un approccio basato sui diritti umani centrato sul diritto alla vita, raccogliendo l’eredità spirituale di Makiguchi e Toda, i due maestri del nostro movimento la cui visione della pace mondiale non si limitava alle iniziative per alleggerire le tensioni fra le varie nazioni o per prevenire le guerre, ma si concentrava sulla protezione risoluta della vita e della dignità di ogni persona.
È significativo che il Trattato, pur avendo come oggetto il disarmo, sia pervaso dallo spirito di una legislazione internazionale per i diritti umani. Uno dei suoi aspetti più interessanti è l’accento che pone sugli esseri umani e sulla loro sofferenza; per esempio, la motivazione fondamentale per la proibizione delle armi nucleari si basa sul rischio che esse rappresentano per la «sicurezza di tutta l’umanità». ((UN, “Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons” (Trattato per la proibizione delle armi nucleari), A/CONF.229/2017/8, Adottato dall’Assemblea generale il 7 luglio 2017, http://undocs.org/A/CONF.229/2017/8.))
Inoltre il Trattato chiarisce che la sua attuazione non dipende unicamente dalle azioni degli Stati, ma riconosce esplicitamente l’importanza del ruolo che deve svolgere la società civile.
Guardando indietro, le parole che hanno segnato il passaggio dal considerare l’individuo come oggetto di interesse al riconoscerlo quale soggetto dotato di diritti nell’ambito della società internazionale sono contenute nella Carta delle Nazioni Unite, che inizia con: «Noi, i popoli», e nella Dichiarazione universale dei diritti umani in cui si afferma che i diritti devono essere goduti da «tutti».
Il Preambolo del Trattato fa riferimento anche ai contributi degli hibakusha, che hanno continuato a mettere in luce la natura disumana delle armi nucleari attraverso la loro testimonianza personale di vittime dei bombardamenti atomici. Durante i negoziati i rappresentanti della società civile sedevano sempre negli ultimi posti. Eppure è stata la società civile, e specialmente gli hibakusha – che sono sia le vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki sia quelle della produzione e sperimentazione delle armi nucleari in tutto il mondo – ad avere un ruolo chiave nel processo che ha portato all’adozione del Trattato. La loro dedizione, come ha dichiarato il rappresentante di una nazione, «li rende degni di supremo rispetto». ((UN News Centre, “Conference to Negotiate Legally Binding Instrument Banning Nuclear Weapons Adopts Treaty by 122 Votes in Favour, 1 against, 1 Abstention” (La conferenza per negoziare uno strumento legalmente vincolante per la messa al bando delle armi nucleari adotta il Trattato con 122 voti a favore, 1 contrario e 1 astenuto), 7 luglio 2017, https://www.un.org/press/en/2017/dc3723.doc.htm.))
Come parte di questa rete della società civile, la SGI si è impegnata a fondo nel processo di elaborazione del Trattato, sia collaborando con ICAN nell’ideazione e organizzazione di mostre che sensibilizzassero l’opinione pubblica riguardo alla natura disumana delle armi nucleari sia presentando documenti di lavoro alle varie sessioni di negoziazione.
Gli ideali della pace e dei diritti umani non si possono realizzare in un colpo solo; la protezione legale e istituzionale dei diritti di ogni individuo si fonda e si concretizza negli sforzi crescenti della società civile, attingendo alla fonte spirituale della legislazione: il voto di non permettere che qualcun altro soffra per quanto si è già sofferto.

[…]

Una cultura dei diritti umani intessuta di gioia condivisa

In terzo luogo desidero sottolineare che i legami che formano una cultura dei diritti umani si tessono attraverso l’esperienza della condivisione della gioia.
Per celebrare il settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, il 10 dicembre 2017 è stata lanciata una campagna presso il Palais de Chaillot a Parigi, il luogo in cui fu presentata la Dichiarazione nel 1948. In tale occasione l’Alto commissario dell’ONU per i diritti umani Zeid Ra’ad Al-Hussein ha dichiarato: «Dobbiamo prendere una posizione forte e determinata: dobbiamo fermamente proteggere i diritti umani degli altri e tutelare anche i nostri e quelli delle generazioni future». ((OHCHR, “Values Enshrined in Universal Declaration of Human Rights under Assault, Must Be Defended” (I valori contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti umani sono attaccati e vanno difesi), Dichiarazione di Zeid Ra’ad Al Hussein, 10 dicembre 2017, http://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=22507&LangID=E.))
La consapevolezza che traspare in questo appello è evidente anche in altre iniziative dell’ONU. La possiamo percepire in “Together” (Insieme), la campagna dedicata al miglioramento della vita dei rifugiati e dei migranti, e nelle attività svolte da “HeForShe” (Lui per Lei), il movimento di solidarietà delle donne dell’ONU per l’uguaglianza di genere. Come suggeriscono i nomi di queste iniziative, per costruire una cultura dei diritti umani autentica è determinante l’espansione di una solidarietà trasversale, qualcosa di intrinsecamente diverso da quel tipo di tolleranza passiva nella quale non si ha una reale comprensione delle difficoltà vissute dagli altri.
La tolleranza passiva è ben lontana da una vera coesistenza e comporta il rischio che si agisca a un livello minimo e superficiale, limitandosi a permettere agli altri di vivere nello stesso quartiere o a rispettare le leggi e i regolamenti in merito. Seguendo questa strada le persone non si sforzano attivamente di riconoscere l’umanità che le accomuna a chi percepiscono come diverso e non acquisiscono gli strumenti per contrastare gli impulsi esclusionisti nei momenti di maggiore tensione sociale. Da questa considerazione è sorto un nuovo approccio dell’ONU volto alla creazione di una cultura dei diritti umani basata sull’impegno comune di indirizzare l’opinione pubblica verso una società in cui tutti possano vivere con dignità.
Nel Buddismo troviamo l’espressione: «”Gioia” significa che se stessi e gli altri insieme provano gioia» (Raccolta degli insegnamenti orali, BS, 118, 50). In base a tale principio credo che la fonte per creare una società di coesistenza e arricchimento reciproco sia adottare un modo di vivere in cui si prova gioia nel vedere la dignità degli altri irradiare pienamente il suo potenziale.
Il Sutra del Loto contiene varie scene in cui i discepoli di Shakyamuni, colpiti nell’ascoltare il suo insegnamento sulla dignità della vita, iniziano uno dopo l’altro a formulare il loro voto di vivere in base a questo principio. Ciò mette in moto una reazione a catena di intenso giubilo – descritto in frasi come: «I loro cuori si colmarono di grande gioia» (SDLPE, 264) e «le loro menti danzarono di gioia» (Cfr. SDLPE, 82) – attraverso il quale tutti approfondiscono il senso della vita come valore essenziale e l’importanza della sua dignità.
Il motore del movimento popolare della SGI è questo stesso senso di gioia condivisa, che sorge dagli sforzi di sostenere ogni persona, al di là delle differenze, affinché non si perda d’animo davanti alle sfide della vita. Una gioia che scaturisce dal vedere gli amici risplendere di dignità mentre perseverano nell’affrontare le difficoltà, applaudendo alla crescita e ai progressi degli altri come se fossero i propri. Assaporare e condividere questa gioia reciproca è la sorgente del nostro movimento.
L’idea della gioia condivisa mi ricorda ciò che mi raccontò lo storico Vincent Harding (1931-2014) a proposito della sua partecipazione al movimento americano per i diritti civili. L’evento che lo convinse a dedicare la vita a questa causa fu la visita alla casa di Martin Luther King (1929-1968) quando era studente universitario. La protesta del boicottaggio degli autobus aveva portato, in quel periodo, all’esplosione di un vasto movimento popolare che chiedeva la fine del razzismo istituzionale. La tensione era altissima, specialmente negli Stati del Sud, dove gli studenti afroamericani non erano ammessi alle scuole superiori ed era loro impedito di frequentare i corsi universitari.
Harding, che all’epoca viveva a Chicago, stava esplorando la possibilità di creare una comunità cristiana inclusiva di neri e bianchi. A un certo punto nel suo gruppo di amici sorse la domanda: «Cosa faremmo se vivessimo nel sud, dove è illegale e pericoloso per neri e bianchi vivere e lavorare insieme come fratelli e sorelle? Continueremmo a provare a vivere secondo ciò in cui crediamo e a onorare le nostre relazioni reciproche pur andando incontro a seri problemi?». ((D. Ikeda e V. Harding, America Will Be! Conversations on Hope, Freedom, and Democracy, Dialogue Path Press, Cambridge, Massachusetts, 2013, p. 50.))
Dopo aver discusso la questione, cinque di loro – due neri e tre bianchi – decisero di verificare tale assunto facendo un viaggio nel sud a bordo di un vecchio furgone. La prima tappa fu l’Arkansas, dove si recarono a casa di alcune figure centrali del movimento per aiutare gli studenti che si erano visti rifiutare l’accesso alla nuova scuola superiore integrata. Qui furono testimoni diretti delle terribili minacce che subivano i leader del movimento.
Poi attraversarono lo Stato del Mississippi – dove le violenze contro chi metteva in discussione le pratiche di segregazione e la supremazia bianca continuavano senza tregua – per arrivare in Alabama, dove King era in convalescenza nella sua casa a Montgomery dopo essere stato accoltellato in un recente attacco. Nonostante ciò sua moglie, Coretta Scott King (1927-2006), diede loro un caldo benvenuto e così poterono conoscere il famoso leader pacifista.
Harding mi raccontò: «Durante quel primo incontro a Montgomery, [King] fu fortemente colpito nel vedere come noi cinque – due neri e tre bianchi – viaggiassimo insieme come fratelli. […] Uno dei suoi scopi principali era non solo stabilire i diritti legali dei neri, ma andare oltre e creare ciò che definiva una “amata comunità” in cui tutte le persone potessero riscoprire il senso della loro fondamentale interconnessione come esseri umani». ((Ibidem, p. 54.))
Inutile dire che per King la battaglia fondamentale da vincere era l’adozione di nuove leggi che tracciassero la strada per una società ugualitaria e giusta. Era assolutamente necessario un sistema legale, una legislazione per i diritti civili che ponesse le basi per contrastare la discriminazione e l’oppressione prevalente nella società. Eppure King vedeva più lontano, voleva sradicare completamente il pregiudizio e il risentimento, e mirava a ciò che Harding descrisse come «una nuova America, un’America in cui le persone nere, bianche e di qualsiasi colore potessero trovare insieme un terreno comune per il bene di tutti». ((Ibidem.))
Nell’agosto del 1963, cinque anni dopo l’incontro di Harding con King, la crescita del movimento per i diritti civili culminò nella marcia su Washington, che attirò persone di ogni razza e provenienza sociale. Nel resoconto di quella giornata King riassume così i sentimenti dei partecipanti: «Fra le quasi 250 mila persone che vennero quel giorno nella capitale c’erano molti politici importanti e celebrità, ma l’emozione più forte proveniva dalla massa di persone comuni che stava lì in piedi con dignitosa maestà a testimoniare la sua risoluta determinazione a realizzare la democrazia». ((Martin Luther King Jr., The Autobiography of Martin Luther King, Jr. a c. di Clayborne Carson, Warner Books, New York, 1998, pp. 221-22. Ed. italiana: «I have a dream». L’autobiografia del profeta dell’uguaglianza, Mondadori, 2001.))
Non posso fare a meno di pensare che il sentimento comune dei presenti fosse la gioia di constatare come il desiderio di libertà ed eguaglianza da loro condiviso stesse conducendo a un cambiamento dopo l’altro nella società. La loro gioia non era dovuta semplicemente alla riuscita di quella manifestazione a Washington, ma scaturiva da un processo lungo e difficile, dall’accumulo di tutte le sudate battaglie che avevano portato a quel giorno.
La marcia su Washington fu un evento storico non solo per la solidarietà che dimostrarono persone di ogni provenienza, tra cui molti bianchi, ma – come fa notare King – perché mai prima di allora in tempi di pace le tre confessioni religiose più importanti del paese erano state così vicine. ((Cfr. Ibidem, p. 222.))
Allo stesso modo l’impegno della SGI per l’abolizione delle armi nucleari, tra cui il recente lavoro di preparazione e pubblicazione di dichiarazioni congiunte con varie organizzazioni religiose, sorge dalla risoluta determinazione di creare un’ondata di cambiamento attraverso la solidarietà dei cittadini comuni. Tale collaborazione ha avuto inizio da un simposio interreligioso che si è tenuto a Washington nell’aprile del 2014, dove rappresentanti delle religioni cristiana, musulmana, ebraica e buddista, riuniti per discutere il problema delle armi nucleari, hanno prodotto un documento congiunto firmato dagli esponenti di quattrodici diverse organizzazioni religiose.
Da allora questa rete di comunità di fede ha continuato a far sentire la propria voce attraverso otto dichiarazioni congiunte in vari momenti importanti, come la Conferenza di Vienna del 2014 sull’impatto umanitario delle armi nucleari,((Ministero federale austriaco per l’Europa, l’integrazione e gli affari esteri, “Faith Communities on the Humanitarian Consequences of Nuclear Weapons”, Presentazione ONG, 9 dicembre 2014, https://www.bmeia.gv.at/fileadmin/user_upload/Zentrale/Aussenpolitik/Abruestung/HINW14/Statements/HINW14_Statement_Faith_Communities.pdf.))la Conferenza di revisione dell’NPT del 2015, ((UN, “Faith Communities Concerned about the Humanitarian Consequences of Nuclear Weapons”, Presentazioni ONG alla Conferenza di revisione dell’NPT, 1 maggio 2015, http://www.un.org/en/conf/npt/2015/statements/pdf/individual_6.pdf.)) la seconda sessione del Gruppo di lavoro aperto dell’ONU (Open-Ended Working Group, OEWG) del 2016 ((SGI, “Public Statement to the Open-ended Working Group Taking Forward Multilateral Nuclear Disarmament Negotiations”, Presentazione ONG, 2016, http://www.sgi.org/content/files/resources/ngo-resources/OEWG-Joint-Statement.pdf.)) e le sessioni di negoziazione che hanno prodotto il Trattato per la proibizione delle armi nucleari nel 2017. ((Reaching Critical Will, “Public Statement to the First Negotiation Conference for a Treaty to Prohibit Nuclear Weapons Leading to Their Elimination”, Presentazione ONG, 28 marzo 2017, http://reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/nuclear-weapon-ban/statements/28March_FaithCommunities.pdf.))
Questi legami di solidarietà non si basano solo sulla condivisione di una missione tra diverse tradizioni religiose ma manifestano anche la profonda gioia di avanzare insieme verso la risoluzione dei problemi fondamentali dell’umanità.
Nel novembre 2017 la SGI ha partecipato al convegno internazionale “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale” che si è tenuto in Vaticano. Durante un’udienza con i partecipanti alla conferenza, Papa Francesco ha denunciato non solo l’uso ma anche il possesso di armi nucleari, sottolineando come esse creino un falso senso di sicurezza e che solo un’etica di solidarietà può costituire il vero fondamento di una coesistenza pacifica. Ha riconosciuto anche l’importanza di quel “sano realismo” dimostrato dalla maggioranza degli Stati, che hanno risposto alla natura disumana delle armi nucleari con i negoziati che hanno condotto al trattato per la loro proibizione. ((Papa Francesco, Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti al convegno \”Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale\”, 10 novembre 2017, https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/november/documents/papa-francesco_20171110_convegno-disarmointegrale.html.)) Concordo pienamente con lui.
La mia prima dichiarazione pubblica, in cui esortavo alla costruzione di un consenso internazionale sulla proibizione delle armi nucleari, risale a circa cinquant’anni fa. Era passato solo un mese dall’assassinio di Martin Luther King. Ancora oggi non posso dimenticare il passaggio del suo ultimo discorso in cui si chiedeva in quale epoca della storia umana avrebbe voluto vivere. Pur osservando di sentirsi attratto dal Rinascimento o dai tempi in cui Abramo Lincoln (1809-1865) aveva firmato il Proclama di emancipazione, spiegò che avrebbe scelto il momento presente: «Adesso la mia sembra un’affermazione strana, perché il mondo è completamente sottosopra. La nazione è malata, il paese è travagliato e c’è confusione ovunque. Sì, è un’affermazione strana. Ma io so, in qualche modo, che solo quando è abbastanza buio si possono vedere le stelle. […] Un’altra ragione per cui sono felice di vivere in questo periodo è che siamo stati costretti a giungere al punto in cui dobbiamo davvero farci carico dei problemi che gli esseri umani hanno cercato di affrontare da sempre. Per sopravvivere è necessario affrontarli». ((Martin Luther King Jr., op. cit., p. 360.))
Dobbiamo prestare ascolto alle parole di King: sono della massima importanza proprio ora, quando grazie agli sforzi collaborativi dell’ONU e della società civile sta crescendo la spinta alla creazione di una cultura dei diritti umani e il movimento per l’entrata in vigore del trattato che proibisce le armi nucleari – che proteggerà il diritto alla vita dei popoli del mondo – sta attraversando una fase cruciale.
Davanti a noi abbiamo un’impresa che rimarrà negli annali della storia. La sfida di creare la nuova realtà di una società globale dove tutti possano vivere in pace e con dignità non è al di là della nostra portata, e sono fermamente convinto che la forza trainante per la realizzazione di tale impresa sia la solidarietà della gente comune.

Lezioni per evitare una guerra nucleare

Desidero formulare ora, basandomi sulla prospettiva della protezione della vita e della dignità di ogni individuo, alcune proposte specifiche per la risoluzione di questioni globali.
La prima area tematica riguarda le armi nucleari. Nel luglio del 2017 è stato adottato all’ONU, con il consenso di 122 nazioni, il Trattato per la proibizione delle armi nucleari che vieta queste armi in tutte le loro fasi, dallo sviluppo alla produzione, al possesso, all’uso e alla minaccia d’uso.
Quando nel 1996 la Corte internazionale di giustizia (ICJ) emanò il suo parere consultivo affermando che la minaccia e l’uso di armi nucleari erano contrari alla legislazione internazionale, non riuscì tuttavia a esprimere un giudizio in merito al caso estremo in cui fosse in gioco la sopravvivenza stessa di uno Stato. Il Trattato per la proibizione delle armi nucleari ne sancisce il divieto totale, senza eccezioni, incluso questo caso.
Nel dicembre del 2017 si è svolta una seconda cerimonia per la firma del Trattato, presso le Nazioni Unite, in coincidenza con la cerimonia di conferimento del premio Nobel per la pace alla Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (ICAN), a dimostrazione degli sforzi prolungati per la sua entrata in vigore. D’altro canto, all’interno dei paesi nucleari e dipendenti dal nucleare persiste la percezione che l’impostazione del Trattato sia irrealistica.
In realtà ci sono Stati che dopo aver posseduto armi nucleari hanno scelto il cammino della denuclearizzazione. Uno è il Sudafrica, che iniziò a smantellare i propri arsenali nel 1990, l’anno in cui il presidente F.W. de Klerk tenne un discorso in parlamento nel quale annunciò di voler porre fine al sistema dell’apartheid della minoranza bianca dominante. Il paese aderì poi al Trattato di non proliferazione degli armamenti nucleari (NPT) del 1991 e firmò nel 1996 il Trattato di Pelindaba, che dichiarava il continente africano Zona libera da armi nucleari (NWFZ).
Nel preambolo del Trattato per la proibizione delle armi nucleari in America Latina e nei Caraibi (Trattato di Tlatelolco, 1967), che sancì la nascita della prima zona denuclearizzata del mondo (NWFZ), si afferma che l’accordo mira non solo alla messa al bando del flagello di una guerra nucleare ma anche a realizzare «il consolidamento di una pace permanente basata su eguali diritti» ((OPANAL (Agenzia per la proibizione delle armi nucleari in America Latina e nei Caraibi), “Treaty for the Prohibition of Nuclear Weapons in Latin America and the Caribbean: Treaty of Tlatelolco” (Trattato per la proibizione delle armi nucleari in America Latina e nei Caraibi: Trattato di Tlatelolco), 29 gennaio 2002, http://www.nti.org/media/pdfs/ tlatelolco_treaty_text_english.pdf, p. 6.)) per tutti. In altre parole, il Trattato è venuto in essere grazie alla duplice volontà di realizzare al contempo sia la denuclearizzazione sia la tutela dei diritti umani.
L’aspirazione a stabilire una legislazione internazionale per i diritti umani nasce dall’obiettivo di proteggere la vita e la dignità di ogni individuo in qualsiasi contesto nazionale; in tale prospettiva non trova posto la continua spinta a possedere armi nucleari.
Come dimostrano le tensioni suscitate dal programma di sviluppo degli armamenti nucleari della Corea del Nord, esiste nella comunità internazionale una reale preoccupazione che le armi nucleari possano rappresentare ancora una volta una crescente minaccia e una fonte di intimidazione. Un altro aspetto preoccupante che sta emergendo negli ultimi anni è la continua disputa diplomatica fra Stati Uniti e Russia sulle possibili violazioni del Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (INF).
La politica della deterrenza nucleare si basa principalmente sulla minaccia dell’uso di queste armi. Volendo analizzare più a fondo i problemi connaturati a tale approccio, mi viene in mente la filosofa Hannah Arendt (1906-1975), che identificava la parola “sovranità” con quel tipo di libero arbitrio che cerca di prevalere sugli altri. Metteva a confronto questo tipo di libertà con la concezione che se ne aveva nell’antica Grecia, dove la libertà era intesa come qualcosa che si concretizzava in interazioni con gli altri, nelle quali parole e azioni erano pervase da una sorta di “virtuosità”. Secondo Hannah Arendt questa idea di libertà è stata soppiantata, sin dall’inizio dell’era moderna, da una libertà di scelta radicata nella volontà individuale, un libero arbitrio al quale manca il riconoscimento dell’esistenza degli altri. «A causa dello spostamento filosofico dall’azione al potere della volontà, dalla libertà come stato dell’essere che si manifesta nell’azione al liberum arbitrium, l’ideale della libertà ha cessato di essere virtuosità nel senso menzionato prima ed è diventato sovranità, l’ideale di una volontà libera, indipendente dagli altri e che alla fine prevale su di essi». ((Hannah Arendt, The Portable Hannah Arendt, a c. di Peter Baehr, Penguin Books, New York, 2000, p. 454.))
L’esempio più estremo di una sovranità che cerca di prevalere sugli altri è quello degli Stati che perseguono i loro obiettivi di sicurezza attraverso il possesso di armi nucleari e la minaccia della catastrofe distruttiva che possono scatenare.
In un certo senso, la storia della legislazione internazionale si può considerare come lo sforzo ripetuto di chiarire le linee di demarcazione che gli Stati sovrani non dovrebbero oltrepassare e di fissare questi limiti sotto forma di norme concordate. Il giurista olandese Ugo Grozio (1583-1645), sconvolto dalle guerre che scuotevano l’Europa nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo, nel suo Il diritto della guerra e della pace auspicò un riconoscimento dell’umanità di coloro che consideriamo nemici e del diritto a vedere mantenute le promesse che abbiamo fatto loro. ((Cfr. Hugo Grotius, Hugo Grotius on the Law of War and Peace, a c. di Stephen C. Neff, Cambridge University Press, Cambridge, 2012, p. 406. Ed. Italiana: Ugo Grozio, Il diritto della guerra e della pace, Centro Editoriale Toscano, 2002.))
Nel diciannovesimo secolo questa idea si tradusse nella proibizione di certe armi e comportamenti in tempo di guerra e, nel ventesimo secolo, dopo due guerre mondiali, portò alla proibizione dell’uso o della minaccia dell’uso della forza militare nelle relazioni internazionali sancita dalla Carta delle Nazioni Unite. Attualmente i trattati che mettono al bando le armi chimiche e biologiche, e più di recente le mine anti-persona e le bombe a grappolo, hanno affermato chiaramente che l’uso di queste armi è inammissibile in qualsiasi circostanza. E ciò ha determinato una diminuzione del numero di paesi che continuano a desiderarne il possesso.
L’anno scorso ricorreva il ventesimo anniversario dell’entrata in vigore della Convenzione sulle armi chimiche. Attualmente 192 Stati hanno aderito e circa il 90 per cento delle scorte mondiali di armi chimiche è stato distrutto. ((Cfr. OPCW (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche), “20 Years of the OPCW: Its Achievements, Future Outlook and Cooperation with Industry”, Dichiarazione di Ahmet Üzümcü, 27 ottobre 2017, https://www.opcw.org/fileadmin/OPCW/ODG/uzumcu/ICCA_speech_DG.pdf.)) Una volta stabilita chiaramente, una norma internazionale non si limita a influenzare il comportamento dei singoli Stati ma coinvolge l’andamento complessivo del mondo.
Beatrice Fihn, direttrice esecutiva di ICAN, ha evidenziato questo punto nel suo discorso alla Cerimonia di conferimento del premio Nobel per la pace: «Oggi nessuna nazione si vanta di essere uno Stato che possiede armi chimiche. Nessuna nazione afferma che sia accettabile, in circostanze estreme, l’uso dell’agente nervino Sarin. Nessuna nazione proclama il suo diritto a scatenare sui suoi nemici la peste o la poliomielite. Poiché sono state stabilite norme internazionali, il modo di pensare è cambiato». ((ICAN, Discorso di Beatrice Fihn al ricevimento del Nobel per la pace, 10 dicembre 2017, https://senzatomica.it//notizie/discorso-beatrice-fihn-al-ricevimento-del-nobel-la-pace/.))
Attraverso l’adozione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, esse vengono inequivocabilmente definite armi il cui uso non è ammissibile in alcuna circostanza.
Il segretario generale dell’ONU António Guterres ha lanciato un monito: «Le tensioni globali stanno aumentando, ci sono state minacce di guerra e sono state pronunciate parole pericolose riguardo all’uso di armi nucleari». ((António Guterres, “Secretary-General’s Video Message to Opening of the 2017 Session of the Conference on Disarmament” (Videomessaggio del Segretario generale all’apertura della Sessione 2017 della Conferenza sul disarmo), 24 gennaio 2017, https://www.un.org/sg/en/content/sg/statement/2017-01-24/secretary-generals-video-message-opening– 2017-session-conference.)) Proprio perché viviamo in un tempo di caos nucleare sempre più profondo, dovremmo interrogarci onestamente sui presupposti su cui si basa la politica della deterrenza nucleare.
Qui desidero ricordare alcune delle lezioni della guerra fredda, un tempo di scambi apparentemente inarrestabili di “parole pericolose” riguardo alle armi nucleari e al loro possibile uso. È stato recentemente trasmesso un documentario televisivo ((Point du Jour, Khrushchev Does America, (Kruscev in America), film 2013, https://www.youtube.com/watch?v=QRjFo14PPWc.)) sul viaggio negli Stati Uniti di Nikita Kruscev (1894-1971), il primo di un premier sovietico. La visita ebbe luogo nel settembre del 1959, due anni dopo il riuscito lancio del satellite Sputnik, che fece seguito al test di lancio di un missile balistico intercontinentale sovietico.
Sebbene agli occhi dell’opinione pubblica americana l’immagine di Kruscev fosse quella di un pericoloso guerrafondaio, e ciò si rifletteva in una continua e totale opposizione politica ovunque andasse, era chiaro come egli provasse un sincero piacere nei vari incontri con la cittadinanza.
Nonostante la differenza di posizioni, Kruscev riuscì a creare una certa fiducia fra l’Unione Sovietica e il governo americano. L’anno seguente, però, un aereo spia americano U2 venne abbattuto nello spazio aereo sovietico e le relazioni peggiorarono di nuovo. Seguirono la crisi di Berlino del 1961 e la crisi dei missili di Cuba del 1962 quando, raggiunto l’apice della tensione, all’ultimo momento il presidente John F. Kennedy (1917-1963) e il premier Kruscev riuscirono a dar prova di moderazione evitando il peggio.
Il documentario termina immaginando i sentimenti di Kruscev e con questa pregnante domanda: sebbene vi fossero certamente ragioni politiche che indussero Kruscev ad accettare il compromesso, non possiamo forse immaginare che anche i cari ricordi di quei brevi incontri con i cittadini americani abbiano avuto un ruolo nell’impedirgli di oltrepassare la linea che avrebbe scatenato una guerra nucleare?
Ovviamente è solo una speculazione, ma la consapevolezza del gran numero di cittadini che avrebbero sofferto o che sarebbero morti in un attacco nucleare era un sentire che riconobbi personalmente nel successore di Kruscev, Aleksej N. Kosygin (1904-1980), quando lo incontrai qualche anno dopo, nel settembre del 1974.
A quell’epoca le relazioni fra l’Unione Sovietica e la Cina erano sempre più tese. Ero deciso a fare tutto ciò che era in mio potere per impedire una guerra nucleare e così condivisi con il premier Kosygin ciò che avevo visto con i miei occhi tre mesi prima in un viaggio in Cina, dove i cittadini stavano costruendo rifugi nell’eventualità di un attacco sovietico. Mi aveva profondamente addolorato anche la vista degli alunni di una scuola media di Pechino che scavavano un rifugio sotterraneo nel cortile della scuola.
Comunicai al premier sovietico il terrore che avevo avvertito fra la popolazione cinese e gli chiesi se l’Unione Sovietica intendesse sferrare un attacco alla Cina. Mi rispose fermamente che l’Unione Sovietica non aveva alcuna intenzione di attaccare o di isolare la Cina e io riferii questo messaggio quando mi recai nuovamente in Cina l’anno successivo. Quell’esperienza mi fece capire quanto fosse importante che i leader degli Stati detentori di armi nucleari tenessero sempre a mente le masse di persone, tra cui i bambini, che vivono sotto la minaccia delle armi nucleari.
In modo analogo è stata riportata una testimonianza recente dello shock provato nel 1982 dal presidente statunitense Ronald Reagan (1911-2004) mentre guardava una simulazione al computer di un’esercitazione militare nella quale le città distrutte da un attacco nucleare sovietico venivano indicate da punti rossi sulla mappa degli Stati Uniti. A ogni istante che passava il numero dei punti rossi aumentava e «prima che il presidente potesse bere il suo caffè, la mappa diventò un mare di rosso». ((David E. Hoffman, The Dead Hand: The Untold Story of the Cold War Arms Race and Its Dangerous Legacy (La mano morta. La storia taciuta della corsa agli armamenti durante la guerra fredda e la sua pericolosa eredità), Doubleday, New York, 2009, p. 39.)) Si dice che Reagan si sia alzato stringendo convulsamente la sua tazza di caffè, pietrificato a quella vista. Il ricordo di questo episodio deve essere rimasto nella coscienza del presidente Reagan quando in seguito ricercò il dialogo con l’Unione Sovietica e tenne anche una serie di summit con l’allora segretario generale Michael Gorbaciov, con il quale poi concluse il Trattato INF.
Far conoscere queste realtà è l’obiettivo della mostra Everything You Treasure – For a World Free From Nuclear Weapons (Tutto ciò che ami – Per un mondo libero da armi nucleari), realizzata dalla SGI in collaborazione con ICAN. I pannelli iniziali invitano a riflettere su ciò che amiamo, su ciò che è importante per noi. Naturalmente la risposta sarà diversa per ogni persona, ma siamo convinti che, per costruire la solidarietà popolare necessaria per porre fine all’era delle armi nucleari, sia essenziale affrontare l’evidenza del fatto che l’uso delle armi nucleari distruggerebbe tutte le cose che ognuno di noi considera preziose.
Come si vide nella crisi dei missili di Cuba, dove le provocazioni reciproche determinarono un’escalation vicinissima al punto di non ritorno, non c’è modo di sapere quando l'”equilibrio del terrore” crollerà a causa di un errore di calcolo o di una supposizione errata. I leader degli Stati nucleari o dipendenti dal nucleare dovrebbero essere pienamente consci della sostanziale precarietà di questo equilibrio.
Nel 2002, quando crebbero le tensioni fra India e Pakistan, gli sforzi della diplomazia americana svolsero un ruolo chiave per indurre le due parti alla moderazione. Il segretario di Stato statunitense Colin Powell, che svolgeva il ruolo di mediatore, esortò il presidente del Pakistan a ricordare che l’impiego di armi nucleari non è un’opzione percorribile: «Lei vuole essere il paese o il leader che per la prima volta dall’agosto del 1945 usa queste armi? Vada a vedere di nuovo le immagini di Hiroshima e Nagasaki!». ((Fumihiko Yoshida, “Japan Still Clings to Outdated Nuclear Umbrella” (Il Giappone è ancora attaccato a un ombrello nucleare obsoleto), 26 agosto 2013, http://www.asahi.com/special/news/ articles/OSK201308150234.html.)) I pakistani furono persuasi dalle sue argomentazioni, e così anche gli indiani, e fu possibile risolvere la crisi.
Penso che queste lezioni della storia dimostrino come i fattori che finora hanno impedito una guerra nucleare non riguardino necessariamente la logica della deterrenza basata sull’equilibrio del terrore, ma qualcosa di totalmente diverso. Uno di essi è lo sforzo di non chiudersi ma mantenere un filo di comunicazione fra i paesi in conflitto. Un altro è tenere bene a mente la portata della sofferenza umana – dimostrata dagli orrori di Hiroshima e Nagasaki – che qualsiasi uso di armi nucleari potrebbe arrecare a milioni di cittadini.

«Affinché nessuno debba soffrire quello che noi abbiamo sofferto»

In aprile-maggio di quest’anno si riunirà il Comitato preparatorio per Conferenza di revisione dell’NPT 2020 e in maggio le Nazioni Unite ospiteranno la Conferenza ad alto livello sul disarmo nucleare. Queste saranno le prime occasioni per discutere e deliberare, dopo l’adozione del Trattato di proibizione, in cui saranno presenti Stati nucleari e dipendenti dal nucleare. Esorto tutti i partecipanti a impegnarsi in un confronto costruttivo per un mondo libero da armi nucleari. Spero che i leader mondiali colgano questa opportunità per stabilire i passi che i loro governi possono intraprendere in vista della Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione. Sarebbe anche la prima opportunità di dichiarare pubblicamente quali delle sette azioni vietate dal Trattato per la proibizione delle armi nucleari (vedi box a p. 24) si impegnano ad accettare. Per esempio, il divieto di trasferimento di armi nucleari o dell’assistenza ad altri Stati nell’acquisizione di armi nucleari sono fra i punti sui quali gli Stati nucleari potrebbero raggiungere un accordo nel contesto del Trattato di non proliferazione. Allo stesso modo, per gli Stati dipendenti dal nucleare dovrebbe essere possibile prendere in considerazione la proibizione dell’uso o della minaccia dell’uso di armi nucleari e anche dell’assistere, incoraggiare o indurre azioni del genere alla luce delle loro rispettive politiche di sicurezza.
L’efficacia della legislazione internazionale viene accresciuta dalla complementarietà tra la cosiddetta hard law, cioè le regole rigide come i trattati, e la soft law, cioè le regole più flessibili come le risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU e le dichiarazioni internazionali. Nel campo del disarmo abbiamo l’esempio del Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty, CTBT), nel quale gli Stati che non lo hanno ancora ratificato possono concludere accordi separati per cooperare con il sistema di monitoraggio internazionale. Nel caso del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, parallelamente alle iniziative per ottenere ulteriori firme e ratifiche sarebbe utile che i non aderenti al Trattato stabilissero una serie di impegni volontari a rispettare specifiche proibizioni, dichiarandolo specificamente nel contesto della propria politica nazionale.
Dobbiamo ricordare che il Trattato per la proibizione delle armi nucleari non è sorto indipendentemente dal Trattato di non proliferazione. Dopotutto fu la Conferenza di revisione dell’NPT del 2010 che espresse – con il sostegno sia degli Stati nucleari sia di quelli dipendenti dal nucleare – la rinnovata consapevolezza della natura disumana delle armi nucleari, e fu tale consapevolezza che accelerò il movimento verso un trattato per la loro proibizione.((Cfr. UN General Assembly, “2010 Review Conference of the Parties to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons”, NPT /CONF.2010/50 (Vol. I). Adottata dall’Assemblea generale il 18 giugno 2010, http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=NPT/CONF.2010/50%20(VOL.I) p. 19.)) E a sua volta il Trattato per la proibizione dà una forma concreta agli obblighi di disarmo nucleare stabiliti nell’Articolo VI dell’NPT e promuove la buona fede di adempiervi.
L’Istituto Toda per la pace, che fondai in segno di riconoscimento per l’eredità lasciata dal mio maestro, nel novembre 2017 ha organizzato una conferenza internazionale a Londra sul tema della sicurezza cooperativa. La conferenza ha definito le iniziative necessarie per il progresso del disarmo nucleare, da lungo tempo in fase di stallo, e ha considerato anche i modi in cui il Trattato di non proliferazione e quello per la proibizione delle armi nucleari possono completarsi a vicenda. In febbraio si è svolta un’altra conferenza a Tokyo, che ha radunato esperti dal Giappone, dalla Corea del Sud, dagli Stati Uniti e dalla Cina per esplorare le modalità di superamento dell’impasse dovuta al programma nucleare nordcoreano e promuovere la pace e la sicurezza dell’Asia nordorientale.
Per contrastare la mancanza di progressi nella riduzione degli armamenti nucleari, la modernizzazione in corso degli arsenali e le criticità legate alla loro proliferazione, adesso è il momento di cercare sinergie tra il rafforzamento delle basi del Trattato di non proliferazione e le norme di divieto chiaramente enunciate dal Trattato per la proibizione. Tali sinergie possono tracciare il cammino verso un futuro in cui la tragedia delle armi nucleari non si ripeta mai più.
A questo proposito spero sinceramente che il Giappone, come unico paese ad aver sperimentato l’uso delle armi nucleari in guerra, assuma l’iniziativa di rendere più favorevoli i presupposti verso il disarmo nucleare in vista della Conferenza di revisione dell’NPT 2020. Il Giappone dovrebbe cogliere l’opportunità della Conferenza ad alto livello di maggio per porsi all’avanguardia degli Stati dipendenti da quelli detentori di armi nucleari nel dichiarare la sua disponibilità a considerare di aderire al Trattato per la proibizione. Per parafrasare le parole di Colin Powell: il Giappone ha intenzione di diventare un paese che tollera la possibilità che le armi nucleari siano impiegate nuovamente, per la prima volta dopo quell’agosto del 1945? Avendo sperimentato direttamente gli orrori delle armi nucleari, il Giappone non può ignorare la propria responsabilità morale.
Il Trattato per la proibizione delle armi nucleari è pervaso dal desiderio accorato dei sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki che nessun paese diventi bersaglio di un attacco nucleare e che nessun paese prenda mai la decisione di sferrarlo.
L’hibakusha Setsuko Turlow ha descritto così i suoi sentimenti di sopravvissuta riguardo all’adozione del Trattato: «Ci ha anche convinto l’idea che continuare a parlare della nostra esperienza, così dolorosa da ricordare, sia la cosa giusta da fare e che non sarà mai invano». (( Setsuko Thurlow, “Special Contribution”, Hiroshima Peace Media Center, 4 dicembre 2017, http://www.hiroshimapeacemedia.jp/?p=78859.))
L’anno scorso, in occasione della prima riunione del comitato preparatorio della Conferenza di revisione dell’NPT 2020, il rappresentante del Giappone ha dichiarato: «Il riconoscimento delle conseguenze dell’uso delle armi nucleari costituisce il presupposto fondamentale di qualsiasi approccio verso un mondo libero dalle armi nucleari». ((MOFA, (Ministero giapponese degli affari esteri), “Remarks by H.E. Mr. Fumio Kishida, Minister for Foreign Affairs of Japan at the First Session of the Preparatory Committee for the 2020 NPT Review Conference”, 2 maggio 2017, http://www.mofa.go.jp/mofaj/ files/000253041.pdf.)) La posizione del Giappone deve sempre basarsi sullo spirito incarnato dagli hibakusha che nessuno debba mai sperimentare la sofferenza che essi hanno vissuto.
Un’altra proposta che desidero avanzare a sostegno dell’universalizzazione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari riguarda la creazione di una solidarietà sempre maggiore da parte della società civile.
Il significato del Trattato risiede nella completa messa al bando di ogni aspetto inerente alle armi nucleari. Ma di uguale se non maggiore importanza è che, per la sua applicazione, esso prevede la partecipazione della società civile in un ruolo di primo piano, accanto a quello degli Stati e delle organizzazioni internazionali. Il Trattato stabilisce che, oltre agli Stati che devono ancora aderire, la società civile partecipi come osservatrice alle conferenze biennali delle parti e alle conferenze di revisione che si svolgeranno ogni sei anni.
Si tratta di un riconoscimento dell’importanza del ruolo svolto dagli hibakusha di tutto il mondo e dalla società civile nel suo complesso nell’adozione del Trattato. Allo stesso tempo costituisce la dimostrazione che la proibizione e l’eliminazione delle armi nucleari è un’impresa condivisa a livello globale, che richiede la partecipazione di tutti i paesi, delle organizzazioni internazionali e della società civile.
Il Preambolo del Trattato sottolinea l’importanza dell’educazione alla pace e al disarmo, un punto che la SGI ha ripetutamente evidenziato nelle dichiarazioni della società civile alla conferenza di negoziazione e nelle relazioni operative che ha sottoposto alla conferenza. (( Cfr. UN, “On the Objectives and Significance of Prohibiting Nuclear Weapons” (Sugli obiettivi e il significato della proibizione delle armi nucleari), A/CONF.229/2017/NGO/WP.8 Relazione presentata dalla Soka Gakkai Internazionale, 23 marzo 2017, https://www.un.org/disarmament/ptnw/pdf/A%20CONF.229%202017%20NGO%20WP.8%20_SGIWorkingPaper_Final.pdf.)) Noi siamo convinti che l’educazione alla pace e al disarmo possa preservare, attraverso le generazioni, l’eredità di conoscenze sulle conseguenze umanitarie catastrofiche di qualsiasi impiego delle armi nucleari. Tali conoscenze, e l’educazione che le supporta, costituiranno la base per l’applicazione attiva del Trattato in tutti i paesi.
A sostegno delle iniziative per realizzare quanto prima l’entrata in vigore e l’universalizzazione del Trattato, quest’anno la SGI lancerà il secondo People’s Decade for Nuclear Abolition (Decennio delle persone per l’abolizione del nucleare), che proseguirà l’opera del primo Decennio che io suggerii di istituire in una proposta sul rafforzamento dell’ONU pubblicata nell’agosto del 2006. Il Decennio ebbe inizio nel settembre 2007 per commemorare il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione per l’abolizione delle armi nucleari del secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda.
Durante il primo Decennio, allo scopo di far conoscere gli orrori delle armi nucleari e della guerra, la SGI ha prodotto, in collaborazione con ICAN, il DVD in cinque lingue Testimonianze di Hiroshima e Nagasaki: le parole delle donne per la pace e ha portato la mostra Everything You Treasure in ottanta città di diciannove paesi. Inoltre, dopo la raccolta di 2 milioni 270 mila firme per una convenzione sulle armi nucleari, presentata alla Conferenza di revisione dell’NPT nel 2010, ha collaborato alla raccolta di 5 milioni 120 mila firme nel 2014 per la campagna Nuclear Zero.
La SGI ha anche operato con varie organizzazioni per la realizzazione del Summit internazionale dei giovani per l’abolizione delle armi nucleari tenutosi a Hiroshima nell’agosto 2015. Ha partecipato alle conferenze internazionali sull’impatto umanitario delle armi nucleari e a vari incontri e sessioni di negoziazioni svolte sotto gli auspici dell’ONU per garantire che fossero rappresentate le voci e le preoccupazioni della società civile.
Attraverso tali attività la SGI si è adoperata affinché la natura disumana delle armi nucleari continuasse a occupare un posto centrale nel discorso sul disarmo. Ha chiesto negoziati per un trattato legalmente vincolante che proibisse le armi nucleari in tutte le loro fasi e aspetti, basato sul desiderio dei cittadini comuni di vivere in un mondo libero dalle armi nucleari.
Mentre il primo Decennio delle persone per l’abolizione del nucleare si è focalizzato sulla richiesta di uno strumento legalmente vincolante che proibisse le armi nucleari, il secondo si concentrerà maggiormente sull’educazione alla pace e al disarmo, nel tentativo di estendere universalmente il Trattato di proibizione delle armi nucleari e, in base a esso, realizzare una serie di trasformazioni a livello mondiale. Ciò significa incanalare le voci delle persone di tutto il mondo a sostegno del Trattato e promuovere l’attuazione di un processo concreto che porti all’eliminazione completa delle armi nucleari.
Ad esempio l’associazione Mayors for Peace (Sindaci per la pace, vedi box a p. 26) attualmente è presente in più di 7500 città di 162 paesi tra cui, significativamente, anche Stati nucleari e dipendenti dal nucleare, a dimostrazione dell’estensione delle voci che chiedono un mondo libero dalle armi nucleari. E la coalizione di ICAN, composta da organizzazioni della società civile, comprende attualmente 468 organizzazioni in tutto il mondo.
Per promuovere l’universalità del Trattato di proibizione delle armi nucleari penso che, oltre agli sforzi della società civile per incoraggiare la partecipazione di un numero sempre maggiore di Stati, sia importante rendere costantemente visibile la vastità del sostegno al Trattato a livello mondiale. Potrebbe essere efficace, per esempio, collaborare con ICAN, Mayors for Peace e altri per creare una mappa mondiale in cui le municipalità che sostengono il Trattato siano rappresentate in blu, il colore dell’ONU, e pubblicizzare ampiamente le voci della società civile a sostegno del Trattato facendosene portavoce nei luoghi in cui si tengono conferenze dell’ONU o in genere sul disarmo.
Occorrono anche sforzi per costruire un sostegno ancora più vasto al Trattato, concentrandosi fra gli altri sulle comunità scientifiche e religiose, sulle donne e sui giovani. La società civile dovrebbe continuare a esortare gli Stati ad aderire al Trattato e, dopo la sua entrata in vigore, incoraggiare quelli che ancora non ne fanno parte a partecipare, in qualità di osservatori, alle riunioni degli Stati aderenti e alle conferenze di revisione.
Poc’anzi ho parlato di un’esercitazione militare che si svolse in piena guerra fredda in cui la cartina geografica mondiale si tinse di un rosso apocalittico. Noi, popoli della terra, non possiamo più tollerare uno stato di cose in cui gli orrori di un conflitto nucleare rimangano una possibilità. Il peso di questa volontà popolare globale va dimostrato con chiarezza per indirizzare il mondo intero verso la denuclearizzazione.
Nel suo discorso di accettazione del premio Nobel per la pace, Setsuko Thurlow ha dichiarato: «Quando avevo 13 anni, ed ero intrappolata sotto le macerie in fiamme della mia scuola, ho continuato a spingere. Ho continuato a muovermi per raggiungere la luce. E sono sopravvissuta. Oggi la nostra luce è il Trattato. […] Non importa quali ostacoli ci attendono, noi continueremo a muoverci e continueremo a spingere e continueremo a condividere questa luce con gli altri. Questa è la nostra passione e questo è il nostro impegno perché il prezioso mondo, l’unico che abbiamo, possa continuare a esistere». ((ICAN, Discorso di Setsuko Thurlow al ricevimento del Nobel per la pace, op. cit.))
Partendo dalle basi della rete globale costruita da ICAN, Mayors for Peace e altri, dobbiamo garantire visibilità alla volontà di tutta la popolazione del mondo di abolire le armi nucleari. Il peso di questa volontà popolare alla fine porterà a un cambiamento della politica degli Stati detentori di armi nucleari e dipendenti da essi, e alla fine dell’era del nucleare. Ne sono profondamente convinto e lo auspico con tutto il cuore.

[…]

fonte: http://www.sgi.org/about-us/president-ikedas-proposals/peace-proposal-2018/index.html