La forza e la bellezza di preparare la pace
06/05/2022
Pubblichiamo una parte dell’intervista a Enza Pellecchia, coordinatrice del comitato scientifico Senzatomica, condotta dalla redazione del mensile Buddismo e società, che ci ha gentilmente concesso la pubblicazione.
Intervista a Enza Pellecchia
Giurista e cultrice di studi per la pace
Giurista, docente universitaria, coordinatrice della Rete delle università italiane per la pace e direttrice del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace(CISP), Enza Pellecchia è da tempo impegnata a costruire la pace con mezzi pacifici. La incontriamo in un momento in cui sembra che quanto elaborato finora dai Peace Studies sia stato quasi del tutto dimenticato, per capire insieme cosa sta succedendo e cosa possiamo fare per rimanere saldi e salde nelle nostre convinzioni.
Come pensi che le istituzioni accademiche e gli studenti possano agire per favorire una soluzione rapida e pacifica del conflitto?
In uno scenario in cui sono in gioco questioni così complesse, non saprei dire come agire per una soluzione rapida del conflitto. Posso però dire che la reazione delle università è stata incredibile, al di là di ogni aspettativa.
La presenza delle Rete delle università italiane per la pace, a cui aderiscono 60 atenei, ha funzionato da moltiplicatore e acceleratore delle iniziative. Nel sito www.runipace.org abbiamo creato una pagina che riporta l’impegno di ogni ateneo, con un costante aggiornamento delle iniziative di ogni università, a partire dall’organizzazione di incontri di approfondimento e seminari. C’è un grande desiderio di ricevere informazioni al di fuori dei media e dei social. Non ci sono risposte facili, tantomeno in un conflitto che degenera in una guerra; dobbiamo sottrarci alla semplificazione della logica binaria, agli schieramenti, piuttosto abbiamo bisogno di allargare lo sguardo, analizzare, approfondire. Questo è compito delle università.
Nelle università, gli studenti e le studentesse stanno inoltre accogliendo i loro coetanei che arrivano dai luoghi del conflitto, e la stessa cosa stanno facendo i docenti. Al tempo stesso c’è una grande attenzione verso studenti universitari ucraini e russi che già si trovavano in Italia. È un’azione importante perché sono giovani in enormi difficoltà personali e piscologiche. Non dobbiamo confondere la leadership di uno Stato con gli orientamenti, i sentimenti, le opinioni delle persone.
Il desiderio delle persone, in generale, è una soluzione diplomatica del conflitto. Perché è così difficile individuare una strada che porti in questa direzione? Perché quasi tutte le forze politiche e tanti opinionisti non riescono a esprimere una posizione forte e ragionata in questo senso?
È una bellissima domanda. Ritengo che questa incapacità sia dovuta al fatto che nelle persone è radicata la convinzione che “se vuoi la pace, prepara la guerra”, il pensiero che è così che funziona il mondo. Le politiche del riarmo e della deterrenza sono fondate su questa convinzione. Poi arriva la guerra, che dimostra quanto questo presupposto sia sbagliato. Ma invece di riflettere sul fallimento di questo approccio, si dice: «Vedete che il dialogo è inutile? E che la pace è un’utopia?».
Al contrario, i Peace Studies insegnano che la soluzione pacifica non è soltanto etica, è soprattutto razionale. Questo è provato dall’inconcludenza dell’escalation militare che non sta portando ad alcuna soluzione. Denunciare l’irrazionalità e l’improduttività dell’approccio violento è la migliore risposta a chi chiede ragione ai pacifisti e ai nonviolenti dell’inefficacia dell’approccio pacifico. Fatecelo provare! Ma non dovete chiederci di metterlo alla prova solamente quando siamo già nella catastrofe. Dobbiamo dimostrare che l’approccio pacifista è l’unico efficace: “Se vuoi la pace, prepara la pace!”. E ci vuole tempo.
A livello mondiale il disarmo non è in agenda. Anche l’Europa sta aumentando le spese militari, compattandosi sulle politiche di difesa. Come possiamo invertire la rotta?
La corsa al riarmo è già partita, basta guardare le quotazioni in borsa di aziende belliche americane, italiane e non solo, ma anche le scelte di paesi come Germania e Svizzera che avevano escluso l’opzione militare. Questo significa che nei bilanci degli Stati saranno sottratte risorse da altri settori come sanità, istruzione, assistenza sociale…
Le persone devono prendere consapevolezza e rivendicare un ruolo nelle scelte di politica di bilancio. Manifestare il dissenso e ideare campagne creative. Dobbiamo mandare segnali chiari ai palazzi della politica. Se si dà priorità all’acquisto di più droni, aerei, munizioni, si sta peggiorando il futuro delle persone, dei giovani. È assurdo, perché non saranno queste le cose che miglioreranno la nostra vita quotidiana. Le persone devono essere informate: ogni aereo militare in più equivale a decine di asili, scuole, ospedali in meno. Bisogna chiedere trasparenza ai partiti politici sulle loro posizioni rispetto alle spese militari. Ma innanzitutto dobbiamo smantellare la retorica guerresca eroica, diffusa e dannosa, che toglie lucidità, al punto che si parla di “guerra umanitaria” anche in alcune frange dei movimenti pacifisti.
Non pensi che questa forte preoccupazione per una guerra vicina dovrebbe farci ricordare tutti i conflitti che ci sono nel mondo e tutte le persone coinvolte, e sollecitare una maggiore consapevolezza?
Certamente. Questa guerra sta facendo vedere tante cose, per esempio anche che i profughi non sono tutti uguali; nello stesso atteggiamento dei paesi che accolgono, di fatto ci sono persone di “serie a” e di “serie b”: sono migliaia i profughi siriani, afghani, asiatici o neri che sono stati respinti con violenza.
C’è una ragione per cui sentiamo questa guerra particolarmente pericolosa: è vicina geograficamente e avvertiamo la paura. Possiamo aver provato commozione per la Siria o l’Afghanistan vedendo le immagini di distruzione o di morte, ma mai un sentimento di paura. Oggi, di fronte alle stesse scene che sono vicine, proviamo paura per noi stessi. Anche perché in Afghanistan e in Siria non era neppure ipotizzabile che potesse essere usata l’arma nucleare. Oggi l’indicibile è stato detto, e ripetutamente minacciato. E questo rende tutto molto diverso.
Abbiamo paura, ma questa paura può essere anche una grande alleata. Può indurre finalmente ad aprire gli occhi rispetto a un pericolo, quello delle armi nucleari, che di fatto non ci ha mai abbandonato. Oggi ci rendiamo conto che le armi nucleari vengono usate anche quando non vengono fatte esplodere. Perciò è così importante che, nel Trattato per la proibizione delle armi nucleari del 2017, tra i divieti vengano enunciati non solo la costruzione e l’uso, ma anche la minaccia d’uso. Nelle Proposte di pace che il presidente della Soka Gakkai Internazionale Daisaku Ikeda presenta alle Nazioni Unite ogni anno, ricorda sempre che le armi nucleari vengono utilizzate continuamente anche attraverso la loro minaccia. Ad esempio in quella del 2003 cita il filosofo Paul Virilio: «Il pericolo del sistema degli armamenti nucleari non è solo il fatto che possano esplodere, ma che esistono e stanno implodendo nelle nostre menti». Questo perché condizionano il nostro modo di pensare e di ragionare.
Come donna e come buddista, cosa pensi di un mondo preso in ostaggio da uomini che vogliono fare la guerra a tutti i costi? Cosa suggerisci di fare?
La mia reazione iniziale è stata di sgomento, disorientamento e forte senso di impotenza. Ma come buddista so che se non c’è speranza la dobbiamo creare, e che là dove sono posso agire. Anche se la mia azione sembra molto lontana rispetto alla possibilità di fermare una guerra come quella in atto, come buddista so che non è vero: la mia azione, per quanto piccola, può innescare un insieme di reazioni che tutte insieme creano il cambiamento.
Personalmente mi sto concentrando soprattutto sul “disarmo interiore”, una pratica di cui mi occupo da tanto tempo, di cui ho parlato e che pensavo di vivere, ma mai come in questo momento mi è chiara la sua importanza: riguarda l’eliminazione di pensieri tossici, di parole tossiche che portano a non avere speranza e tendono a deresponsabilizzarci.
Ad esempio, quando si parla della guerra, usare l’espressione «siamo a un punto di non ritorno» è terribile: se da una parte sottolinea la gravità della situazione, dall’altra è come dire che non si può fare più niente, tanto vale rassegnarsi. Invece no. Una persona nonviolenta, pacifista, buddista, sa bene che fino all’ultimo istante bisogna comunque con determinazione e tenacia cercare di praticare la via della costruzione della pace con mezzi pacifici. Dobbiamo proteggerci noi da questa tossicità e al tempo stesso contribuire a ridurne il livello nel nostro ambiente.
Come donne, il fatto di essere storicamente ai margini di queste decisioni belligeranti, che sono sempre state prese dagli uomini, ci mette in una posizione in un certo senso privilegiata: a noi non scattano in automatico i meccanismi tipici della logica guerresca. Abbiamo un patrimonio intatto di creatività, cura e protezione della vita, anche attraverso piccoli gesti. La cura dei luoghi, mantenere parole di speranza, coltivare le arti, coltivare la bellezza in contrapposizione all’oscurità della guerra sono azioni molto potenti. Quando dico questo attingo a Virginia Woolf e a Le tre ghinee, un testo meraviglioso sul contributo che le donne possono dare alla costruzione della pace.
Scheda
Enza Pellecchia si occupa di diritti della persona, di soggetti deboli e di disarmo. È professoressa ordinaria di Diritto privato del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, direttrice del Centro interdisciplinare scienze per la pace (Cisp, www.cisp.unipi.it) dell’Università di Pisa e coordinatrice della Rete delle università italiane per la pace (Runipace, www.runipace.org). Fa parte del comitato scientifico della campagna Senzatomica. Ha scritto, oltre a numerosi saggi e monografie, Per un mondo libero