Quella che segue è la trascrizione del discorso pronunciato dal professor Joseph Rotblat al momento dell’accettazione del premio Nobel per la pace, durante la cerimonia tenutasi a Oslo il 10 dicembre del 1995
“Ricordate la vostra umanità.
In questo solenne momento della mia vita – l’accettazione del premio Nobel per la pace – intendo parlare come scienziato, ma anche come essere umano. Fin dai miei giorni più lontani, sono stato appassionato di scienza, ma la scienza, esercizio del potere supremo dell’intelletto umano, nella mia mente è sempre stata collegata ai benefici che doveva portare alle persone. Pensavo che la scienza fosse in armonia con l’umanità, non immaginavo che avrei speso metà della mia vita nel tentativo di sventare un pericolo mortale per l’umanità, creato proprio dalla scienza.
L’uso concreto dell’energia nucleare era il risultato di anni di ricerca sperimentale e teorica, e presentava un grande potenziale benefico per il bene comune. Ma l’opinione pubblica seppe della scoperta solo nel momento in cui ebbe notizia della distruzione di Hiroshima con la bomba atomica. Uno splendido risultato della scienza e della tecnologia era diventato nefasto. La scienza venne associata alla morte e alla distruzione.
Mi addolora ammettere che questa immagine della scienza è meritata. La decisione di usare la bomba atomica sulle città giapponesi, e la conseguente creazione di enormi arsenali nucleari, venne presa dai governi sulla base di percezioni politiche e militari, ma sono stati gli scienziati di entrambi i lati della cortina di ferro a svolgere una parte molto significativa nel dare continuo incremento alla rincorsa alle armi nucleari per tutti i quaranta anni della Guerra Fredda.
Il ruolo degli scienziati nella corsa alle armi nucleari venne espresso con schiettezza da lord Zuckerman 1,per parecchi anni consigliere scientifico del governo inglese: «Per quanto riguarda le armi nucleari […] è l’uomo nel laboratorio che fin dal principio suggerisce che, per questa o quell’altra arcana ragione, sarebbe utile migliorare una vecchia testata nucleare o inventarne una nuova. È lui, il tecnico, non il comandante sul campo, che sta nel cuore della corsa agli armamenti».
Molto prima che il terrificante potenziale della corsa agli armamenti fosse riconosciuto, era largamente diffusa un’istintiva avversione per le armi nucleari e un forte desiderio di eliminarle. A questo proposito, la primissima risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – adottata all’unanimità – chiedeva l’eliminazione delle armi nucleari. Tuttavia, il mondo era allora diviso dall’aspra lotta ideologica tra Est e Ovest e questo appello non aveva alcuna possibilità di essere accolto. Il primo obiettivo era di fermare la corsa agli armamenti prima che portasse a un completo disastro. Tuttavia, dopo la caduta del comunismo e la disintegrazione dell’Unione Sovietica, ogni motivazione per il possesso di armi nucleari è scomparsa. Si poteva ricominciare la lotta per la loro completa distruzione, ma le potenze nucleari sono tenacemente attaccate alle loro armi.
Lasciate che vi ricordi che il disarmo nucleare non è solo un ardente desiderio dei popoli, così come è espresso in numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, ma che si tratta di un impegno che i cinque Paesi che detengono ufficialmente le armi nucleari si sono assunti formalmente, con il Trattato di Non Proliferazione. Solo pochi mesi fa, quando ne è stata decisa l’estensione a tempo indeterminato, le potenze nucleari si sono nuovamente impegnate al disarmo nucleare completo. Questo è ancora il loro traguardo ufficiale, ma le dichiarazioni formali non collimano con le loro politiche a livello pratico e la divergenza sembra essere intrinseca.
Dalla fine della Guerra Fredda, le due principali potenze nucleari hanno iniziato a ridurre significativamente i loro arsenali nucleari. Ognuna sta smantellando circa 2000 testate nucleari all’anno. Se questo programma continuasse, tutte le testate nucleari potrebbero essere smantellate nel giro di poco più di dieci anni. Siamo tecnicamente in grado di creare un mondo libero da armi nucleari in dieci anni circa. Purtroppo il programma attuale non fa in modo che ciò accada: quando il trattato START II è stato siglato – e ricordiamoci che non è stato ancora ratificato – esistevano la bellezza di 15.000 armi nucleari, attive e in riserva. Quindicimila armi con una potenza media di 20 bombe di Hiroshima.
Se non interviene subito un cambiamento fondamentale nel modo di pensare, non vedremo ancora per molto tempo, e forse non vedremo mai, l’azzeramento degli arsenali nucleari. E la base di questo modo di pensare attualmente è rappresentata dalla deterrenza nucleare.
Ciò si legge chiaramente nella Nuclear Posture Review americana che si concludeva con l’affermazione, poi ripresa da altre potenze nucleari, «L’ambiente del dopo-Guerra Fredda richiede la deterrenza nucleare»2. Le armi nucleari sono conservate come baluardo contro pericoli non specificati.
Questa politica è semplicemente la continuazione inerziale dell’era della Guerra Fredda. La Guerra Fredda è finita, ma il modo di pensare della Guerra Fredda rimane. Allora ci dicevano che la terza guerra mondiale era stata sventata grazie all’esistenza delle armi nucleari. Oggi ci dicono che le armi nucleari servono a impedire qualsiasi tipo di guerra. Questi sono argomenti che hanno la pretesa di fornire delle prove in negativo. Mi torna in mente la storiella che si raccontava quando ero ragazzo, ai tempi dell’introduzione delle comunicazioni via radio.
Due uomini anziani e saggi stano discutendo riguardo al passato splendore della civiltà delle rispettive nazioni. Uno dice: «Il mio paese ha una grande tradizione di sviluppo tecnologico. Abbiamo fatto degli scavi e trovato un cavo; il che dimostra come già in tempi remoti avessimo il telegrafo». L’altro uomo ribatte: «Anche noi abbiamo fatto degli scavi e non abbiamo trovato assolutamente niente; il che dimostra che già allora avevamo la comunicazione senza fili!».
Non c’è alcun elemento che provi direttamente che le armi nucleari abbiano impedito una terza guerra mondiale. Al contrario è risaputo che ne hanno quasi provocata una. Il più terrificante periodo della mia vita fu l’ottobre del 1962, durante la Crisi dei missili di Cuba. Non ero a conoscenza di tutti i fatti – solo di recente abbiamo appreso quanto siamo andati vicino alla guerra – ma quello che sapevo era sufficiente a farmi venire i brividi. Milioni di vite all’improvviso potevano finire; milioni di altre sarebbero state condannate a una lenta agonia; gran parte della nostra civiltà sarebbe andata distrutta. Tutto dipendeva dalla decisione di un solo uomo, Nikita Krusciov: si sarebbe piegato all’ultimatum degli Stati Uniti oppure no?3 Il vero volto delle armi nucleari è questo: possono dare inizio a una guerra mondiale, una guerra che, a differenza di quelle combattute in precedenza, distrugge l’intera civiltà.
Quanto all’asserzione che le armi nucleari possano servire da deterrente preventivo delle guerre, quante altre guerre sono necessarie per delegittimare questo argomento? Dieci milioni di persone sono morte nei numerosi conflitti che hanno avuto luogo dal 1945 in poi. Alcuni di questi videro coinvolte delle potenze nucleari e, in più, in due occasioni potenze nucleari coinvolte furono sconfitte e il possesso di armi nucleari non fu loro di alcun aiuto.
Insomma, non c’è alcuna prova che un mondo senza armi nucleari sarebbe pericoloso. Al contrario, sarebbe un mondo più sicuro, come illustrerò in seguito.
Si dice che il possesso di armi nucleari, e in alcuni casi persino condurre dei test sui loro effetti, è indispensabile per la sicurezza nazionale. Ma a questo argomento potrebbero ricorrere anche altre nazioni: se le nazioni più potenti, e quindi meno a rischio, dal punto di vista militare hanno bisogno delle armi nucleari per la propria sicurezza, come si può negare la stessa sicurezza a quelle che sono davvero in una situazione più instabile? L’attuale politica sul nucleare bellico è una ricetta per la sua proliferazione. Una politica per il disastro.
Per prevenire questo disastro, per il bene dell’umanità, dobbiamo sbarazzarci delle armi nucleari.
Per realizzare questo obiettivo ci vorrà del tempo, ma se non iniziamo a lavorare non ci arriveremo mai. Alcuni passi essenziali possono essere compiuti anche subito. Diversi studi e numerose dichiarazioni rese da importanti esponenti militari e da personalità della politica testimoniano che, a eccezione delle dispute tra le attuali potenze nucleari, tutti i conflitti bellici, nonché le situazioni che minacciano di degenerare in guerra aperta, possono essere risolti ricorrendo alle armi convenzionali. Questo significa che l’unica funzione delle armi nucleari è la dissuasione di aggressioni nucleari. Sarebbe ora che tutte le potenze nucleari riconoscessero che la situazione è questa e che dichiarassero, sotto forma di trattato, che non useranno per prime le armi nucleari. Questo sgombrerebbe la via a una riduzione graduale e reciproca degli arsenali nucleari, fino ad arrivare al loro azzeramento. Inoltre si creerebbero le condizioni per una Convenzione sulle Armi Nucleari: una convenzione di applicazione universale che proibirebbe in assoluto il possesso di armi nucleari.
A salvaguardia della Convenzione, si dovrà elaborare un necessario sistema di controllo. Uno studio dell’organizzazione di Pugwash ha prodotto diverse ipotesi di lavoro su questi argomenti.4 Il meccanismo per negoziare una convenzione di questo genere esiste già. Aderire al negoziato non impegna le parti. Non c’è ragione per non cominciare subito. Se non ora, quando?
Pertanto chiedo alle potenze nucleari di abbandonare le sorpassate dottrine della Guerra Fredda e di iniziare a pensare in modo nuovo. Soprattutto, rivolgo loro un appello affinché tengano bene in mente il pericolo a cui, nel lungo periodo, le armi nucleari espongono l’umanità e agiscano per la loro eliminazione.
Un secondo appello va ai miei colleghi scienziati. Ho già descritto la parte sciagurata che un esiguo numero di scienziati, alla stregua di altrettanti «dottor Stranamore» ha avuto nella corsa agli armamenti. Costoro hanno inferto un grave danno all’immagine della scienza.
D’altro canto ci sono scienziati, nell’organizzazione di Pugwash come in altre organizzazioni, che dedicano gran parte del proprio tempo e ingegno a scongiurare i pericoli creati dai progressi della scienza e della tecnologia. Tuttavia questo gruppo costituisce solo una piccola parte della comunità scientifica. Io voglio rivolgermi all’intera comunità.
Voi svolgete un’opera fondamentale che estende le frontiere della conoscenza, ma spesso lo fate senza preoccuparvi molto dell’impatto del vostro lavoro sulla società. Affermazioni dogmatiche come «la scienza è neutrale» o «la scienza non ha nulla che fare con la politica» sono ancora prevalenti, ma in realtà non sono che la vestigia di una torre d’avorio che è stata definitivamente demolita dalla bomba di Hiroshima.
Ecco, per esempio, un interrogativo: è giusto che uno scienziato partecipi allo sviluppo di un’arma di distruzione di massa? Un secco «no» è stata la risposta data recentemente da Hans Bethe.5 Il professor Bethe, un premio Nobel, è il più anziano tra coloro che parteciparono al Progetto Manhattan e sono ancora in vita. In occasione del cinquantesimo anniversario del bombardamento di Hiroshima, ha rilasciato una dichiarazione che citerò per intero: «Come direttore della divisione teorica di Los Alamos, ho partecipato al più alto livello accademico al Progetto Manhattan durante la Seconda guerra mondiale che ha prodotto la prima arma nucleare.
Oggi, all’età di 88 anni, sono uno dei pochi anziani superstiti. Ripensando ai cinquant’anni trascorsi da quel giorno, provo a un tempo un intenso sollievo, perché queste armi non sono state più usate dai tempi della seconda guerra mondiale, che si mescola all’orrore al pensiero che da allora sono state costruite decine di migliaia di altre bombe: centinaia di volte più numerose di quelle che chiunque di noi a Los Alamos avrebbe potuto immaginare.
Oggi giustamente viviamo in un’epoca di disarmo e smantellamento degli armamenti nucleari. Ma in alcuni Paesi lo sviluppo di armi nucleari continua tuttora. Se e quando le varie nazioni del mondo potranno trovare un accordo per fermare questo processo, nessuno lo sa. Ma i singoli scienziati possono comunque incidere su quello che succede, rifiutandosi di prestare il proprio talento in questo processo.
Pertanto rivolgo a tutti gli scienziati di ogni parte del mondo la richiesta di rinunciare a intraprendere o di interrompere qualsiasi lavoro di creazione, sviluppo, miglioramento e fabbricazione di altre armi nucleari e anche di ogni altra possibile arma di distruzione di massa come quelle chimiche o biologiche»
Se gli scienziati prestassero ascolto a questa invocazione, non ci sarebbero nuove testate nucleari; non ci sarebbero scienziati francesi a Mururoa;6 nessuna nuova arma chimica o biologica. La corsa agli armamenti sarebbe davvero finita.
Ma ci sono anche altri rami della ricerca scientifica che possono direttamente o indirettamente arrecare un danno alla società. Per questa ragione la vigilanza deve essere costante. I governi e la ricerca scientifica talvolta possono avere degli scopi occulti e il pubblico può essere tratto in inganno da un’informazione tendenziosa. Gli scienziati dovrebbero assumersi il compito di denunciare questi fatti incresciosi. Le «soffiate» di questo tipo dovrebbero diventare parte del codice etico degli scienziati. Potrebbero certamente esserci delle rappresaglie; un prezzo da pagare per seguire le proprio convinzioni. Il prezzo potrebbe essere anche molto alto, come dimostra la sproporzionata severità della pena inflitta a Mordechai Vanunu.7
Personalmente ritengo che Vanunu a questo punto abbia sofferto abbastanza.
È venuto il momento di formulare delle linee guida per la condotta etica degli scienziati, forse nella forma di un giuramento volontario come quello ippocratico. Ciò potrebbe mostrarsi particolarmente importante per i giovani che intraprendono una carriera scientifica. La sezione statunitense del gruppo studentesco di Pugwash ha scelto di raccogliere questa idea e ciò è molto confortante.
In un momento storico in cui la scienza ha un ruolo tanto importante nella vita della società, quando il destino dell’intera umanità potrebbe dipendere dai risultati della ricerca scientifica, su tutti gli scienziati grava il dovere di essere pienamente consapevoli del proprio ruolo e di comportarsi di conseguenza. Faccio appello ai miei colleghi scienziati perché si ricordino della loro responsabilità nei confronti dell’umanità.
Il terzo appello è rivolto ai miei concittadini di tutto il mondo: aiutateci a stabilire una pace duratura.
Mi vedo costretto a portare alla vostra attenzione una realtà terrificante: con lo sviluppo delle armi nucleari l’uomo ha acquisito, per la prima volta nella sua storia, gli strumenti per distruggere l’intera civiltà con un singolo atto. Invero l’intera specie umana è a rischio di estinzione, a causa delle armi nucleari o di altri strumenti di distruzione indiscriminata che i futuri sviluppi scientifici verosimilmente renderanno possibili.
Fin qui ho sostenuto che dobbiamo eliminare le armi nucleari, ma pur rimuovendo la minaccia immediata, ciò non ci garantirebbe una sicurezza permanente. Le armi nucleari non possono essere «disinventate» Non possiamo cancellare la conoscenza di come costruirle. Persino in un mondo libero dalle armi nucleari, se una delle grandi potenze militari dovesse essere coinvolta in un conflitto militare, sarebbe tentata di ricostituire il proprio arsenale nucleare. Si tratterebbe comunque di una situazione migliore di quella attuale, perché la ricostruzione delle armi richiederebbe un tempo considerevole e nel frattempo i conflitti potrebbero essere risolti. Un mondo senza armi nucleari sarebbe più sicuro del mondo attuale, ma il pericolo della catastrofe definitiva continuerebbe a esistere.
L’unico modo di prevenirla alla radice è di abolire la guerra. La guerra non deve più essere considerata un istituto sociale ammissibile. Dobbiamo imparare a risolvere le nostre dispute con strumenti diversi da quelli dello scontro militare.
Questa esigenza è stata riconosciuta già quarant’anni fa, quando nel Manifesto Russell-Einstein dicemmo: «Ecco dunque il problema che vi sottoponiamo, brutale, spaventoso e ineludibile: consegneremo la razza umana alla sua fine, o sapremo rinunciare alla guerra?»
Anche l’abolizione della guerra rientra in un impegno sottoscritto dalle potenze nucleari: l’articolo 6 del Trattato di Non Proliferazione rinvia alla futura conclusione di un trattato di generale e completo disarmo, sottoposto a un puntuale ed effettivo controllo internazionale.
Qualsiasi trattato comporta che in una certa misura venga compromessa la sovranità nazionale e questo è generalmente impopolare. Come abbiamo detto nel Manifesto Russell-Einstein: «L’abolizione della guerra comporterà sgradevoli limitazioni della sovranità nazionale». Qualsiasi sistema di governo venga alla fine adottato, è importante che abbia il sostegno della gente. Dobbiamo riuscire a trasmettere il messaggio che la salvaguardia del nostro bene comune, l’umanità, esige che in ognuno di noi si sviluppi una nuova lealtà: la lealtà verso il genere umano. Bisogna alimentare un sentimento di appartenenza alla razza umana. Dobbiamo diventare cittadini del mondo.
Nonostante la frammentazione che ha avuto luogo dalla fine della Guerra Fredda e le numerose guerre per il riconoscimento di identità nazionali ed etniche, io credo che oggi le condizioni perché questa nuova lealtà attecchisca siano migliori che non ai tempi del Manifesto Russell-Einstein. Ciò anche in virtù degli enormi progressi scientifici e tecnologici degli ultimi quarant’anni. I fantastici passi in avanti compiuti nei settori delle comunicazioni e dei trasporti hanno letteralmente rimpicciolito il nostro mondo. Oggi tutte le nazioni del mondo sono diventate vicine di casa.
Le moderne tecnologie dell’informazione ci permettono di venire istantaneamente a conoscenza di tutto quello che succede in qualsiasi parte del mondo. Possiamo parlare tra noi attraverso le diverse reti di comunicazione. Con il tempo queste capacità miglioreranno ancora enormemente, perché quello che si è raggiunto finora intacca appena la superficie del possibile. La tecnologia ci unisce.
In più di un senso stiamo diventando un’unica grande famiglia.
Nel farmi portavoce della necessità di una nuova lealtà al genere umano, non voglio dire che dobbiamo sconfessare le rispettive lealtà nazionali. Ognuno di noi è leale a diversi gruppi, dall’ambito ristretto della famiglia a quello, finora il più ampio, della nazione. Molti di questi gruppi garantiscono protezione ai propri membri. Con i rischi globali derivanti dalla scienza e dalla tecnologia, oggi l’intera umanità ha bisogno di protezione. Dobbiamo estendere la nostra lealtà all’intera umanità.
Quello di cui noi dell’organizzazione di Pugwash ci facciamo promotori, un mondo senza guerre, sarà certamente considerato da molti un sogno utopistico. Non è un’utopia. Esiste già in ampie regioni del mondo, per esempio nell’Unione Europea, al cui interno è impensabile una guerra. Bisogna estendere questi ambiti fino a includervi tutte le principali potenze del mondo.
In ogni caso non abbiamo scelta. L’alternativa è inaccettabile. Permettetemi di citare il passaggio conclusivo del Manifesto Russell-Einstein: «Come esseri umani ci rivolgiamo agli esseri umani:ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto. Se potete farlo, vi si apre davanti la strada verso un nuovo paradiso; se non potete, dinanzi a voi si spalanca il rischio della morte universale».
La ricerca di un mondo libero dalla guerra ha uno scopo fondamentale: la sopravvivenza, ma se nel corso dell’impresa impareremo come assicurarci la sopravvivenza per mezzo dell’amore, invece che con la paura, con la gentilezza invece che con la costrizione; se impareremo a combinare l’utile e il dilettevole, l’opportuno e il caritatevole, il pratico e il bello, questo sarà un ulteriore premio per avere intrapreso questa missione.
E soprattutto, ricordate la vostra umanità.”
Note:
1. Il barone Solly Zuckerman di Burnham Thorpe, Norfolk, ricevette diversi incarichi governativi di questo genere, durante la Seconda guerra mondiale e in seguito.
2. Più di recente, nelle Pugwash Newsletter dell’ottobre 1998, Rotblat ha fatto
riferimento a una fuga di notizie riguardante il contenuto di una direttiva presidenziale segreta sulla strategia nucleare, che per l’immediato futuro richiede la conservazione delle armi nucleari come base per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
3. Nel 1962 l’Unione Sovietica avviò l’installazione di missili nucleari a Cuba, come deterrente contro qualsiasi aggressione contro l’isola da parte degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti pretesero il ritiro dei missili e le due superpotenze si trovarono così sull’orlo della guerra nucleare. Alla fine Nikita Krusciov, premier sovietico
e presidente del partito comunista, acconsentì al ritiro dei missili, e la crisi rientrò.
4. Rotblat fa riferimento a Verification: Monitoring Disarmament (Verifica: procedure di controllo sul disarmo), un testo pubblicato da Pugwash nel 1991, scritto e redatto da eminenti esperti provenienti sia dall’Occidente sia dall’Unione Sovietica, che illustra come nel movimento scienziati di diversa estrazione ideologica riuscissero a cooperare nell’approccio a delicate questioni di sicurezza.
5. Hans Albrecht Bethe, nato in Germania nel 1906, si trasferì negli Stati Uniti nel 1935 per insegnare alla Cornell University. Fu a Los Alamos dal 1943 al 1946 e nel 1958 fu consulente scientifico per gli Stati Uniti ai colloqui di Ginevra sul divieto dei test nucleari. Nel 1967 ricevette il premio Nobel per la fisica «per i suoi contributi alla teoria delle reazioni nucleari e particolarmente per le scoperte concernenti la produzione di energia all’interno delle stelle».
6. L’atollo di Mururoa nella Polinesia Francese fu il sito di una serie di esplosioni atomiche sperimentali subacquee, cominciata nel 1995 e terminata nel gennaio del 1996.
7. Tecnico nucleare israeliano presso il reattore nucleare di Dimona, Vanunu riteneva che il segreto della produzione a Dimona di plutonio destinato ad armi nucleari dovesse essere reso noto ai cittadini israeliani e al mondo, e quindi per ragioni di coscienza divulgò l’informazione nel 1985. Attirato a Roma da agenti del servizio segreto israeliano, fu rapito e riportato in Israele dove fu processato in segreto, giudicato colpevole e condannato a diciotto anni di reclusione. Vanunu ha trascorso almeno dodici anni in isolamento, mentre in tutto il mondo continuava la campagna d’opinione per la sua liberazione. Adottato da Amnesty International come prigioniero di coscienza, è stato spesso candidato al premio Nobel per la pace.