Comunicazione e discorso di pace, intervista a Giuseppe Mazza

22/10/2024
Credit: Monzino

Giuseppe Mazza, autore del libro “Campagne di guerra. 150 anni di comunicazioni, pubblicità, propaganda” pubblicato nel 2023 per Prospero Editore, è uno dei copywriter italiani più premiati, ha lavorato in Saatchi&Saatchi e in Lowe Pirella. Nel 2008 ha fondato Tita, agenzia pubblicitaria di cui è direttore creativo. Attualmente, è docente di Comunicazione presso l’università IULM di Milano. Il linguaggio pubblicitario e la comunicazione pubblica sono le sue principali aree di interesse scientifico. Abbiamo intervistato il professor Mazza e sono emersi numerosi spunti di riflessione sull’importanza del ruolo delle persone comuni nella costruzione di un “discorso di pace”.

Qual è stato il suo percorso personale per arrivare a scrivere questo libro? Com’è stato confrontarsi col tema della propaganda di guerra alla luce delle sue esperienze professionali?

Questo percorso inizia non molto tempo fa, quando mi sono reso conto che non potevo continuare a fare comunicazione senza studiare la comunicazione. In particolare mi è sembrato importante iniziare a studiarla non soltanto dal punto di vista di chi la emana ma anche dal punto di vista di chi la riceve. In quest’ottica, il discorso sulla guerra e sulle sue retoriche diventa fondamentale perché si entra  nel cuore del linguaggio della diversità gerarchica e dei messaggi calati dall’alto. Analizzare il modo in cui tutto questo viene recepito è stato al centro dei miei approfondimenti. Costruire un discorso consapevole di quanto sia presente la guerra nella comunicazione è  molto importante oggi.

 

 Nel libro viene più volte fatto notare come la propaganda si fondi sull’idea di una guerra vista come qualcosa di necessario alla quale non c’è alternativa. Talvolta, questa operazione viene portata avanti anche a costo di distorcere la realtà. Come distinguere contenuti propagandistici da argomentazioni oggettive?

La verità della guerra sono i suoi morti, le sue vittime. Uno dei risultati più rilevanti della retorica bellica è proprio rivestire i cadaveri sotto una coltre di retorica, di patriottismi, di valori che coprono la verità di quel cadavere, che li rende qualcos’altro. Invece la guerra è omicidio, ed è omicidio di massa. Perciò la mia proposta è di tenere fermo questo aspetto.

La guerra è una costruzione culturale, non è natura. 

 

Nella sua ricerca, in particolare per quanto riguarda il capitolo “Il messaggio dell’atomica”, c’è qualche storia riguardante la bomba atomica, qualche aneddoto, che l’ha maggiormente colpita?

Una classifica dell’orrore è difficile ma forse la cosa più sconvolgente sono i volantini sganciati dopo il 9 agosto su Nagasaki, giorno in cui la bomba atomica “Fat man” fu fatta esplodere sulla città di Nagasaki. Sui volantini americani era raffigurata un’immagine della prima bomba atomica esplosa il 6 agosto ad Hiroshima con le parole del presidente degli Stati Uniti che definiva la bomba uno strumento che avrebbe annientato la possibilità del Giappone di fare la guerra. Non ho potuto fare a meno di chiedermi in che modo i sopravvissuti possano avere recepito questo foglio di carta caduto dal cielo. Credo sia uno dei prodotti più infernali della comunicazione moderna. Tanto più che noi oggi sappiamo che Nagasaki non era in nessun modo un obiettivo militare. Questo volantino serviva semplicemente a schiacciare il Giappone, facendo immaginare ai cittadini una sequenza di bombe. C’è in questo anche un accanimento psicologico che fa della bomba un messaggio in sé.

Sempre nel capitolo sulla bomba atomica, si parla di come essa sia diventata un simbolo, utilizzato come minaccia. Secondo lei, se si combattesse la tendenza a dover trovare per forza un colpevole, una minaccia, potrebbe iniziare a cambiare qualcosa? Il linguaggio della comunicazione può aiutare le persone in questo processo di disarmo del pensiero?

Questa espressione “disarmo del pensiero” mi piace tantissimo. Io credo che la costruzione del nuovo pensiero di cui parlate si connetta molto precisamente a quello che io ritengo sia la doppia sfida dei comunicatori di oggi: da un lato quello di essere capaci di trasmettere la memoria civile e di renderla viva in assenza di testimoni, dall’altro la costruzione di un discorso di pace. Credo quindi che il disarmo del pensiero vada affidato anche al linguaggio della comunicazione.

 

 Lei recentemente ha affermato: “La guerra non l’ha mai passata liscia presso le opinioni pubbliche che l’hanno subita”, perché questo aspetto secondo lei non emerge rispetto alla retorica della guerra?

Le opinioni pubbliche sono sempre state contrarie alla guerra ed oggi lo sono particolarmente, come dimostrano molti sondaggi. Durante il mio studio, mi sono reso conto di questo anche documentando i fallimenti delle campagne di arruolamento nella prima guerra mondiale. Dire che i nostri nonni erano felici di partire per il fronte è una manipolazione. Le piazze entusiaste che vediamo in alcuni documenti dell’epoca erano le piazze dei sostenitori dei regimi favorevoli alla guerra. La guerra è sempre stata proposta come qualcosa di necessario e incontestabile dalla propaganda di regime, ma non appena la produzione delle immagini che descrivono l’orrore della guerra diventa diffusa, il desiderio di pace di gran parte della popolazione comincia ad emergere. La storia del discorso di pace è di fatto una storia mediatica. Quando il discorso di pace si manifesta, esso coincide col racconto degli orrori della guerra. Ciò succede nel momento in cui i media non sono più proprietà di un potere centrale.

Design: Takahisa Kamijyo Title: Landscape of Prayer

Nel libro si parla di come le masse vengano considerate un agente passivo nella comunicazione. Possono esse giocare un ruolo attivo nel momento in cui diventano consapevoli di vivere in un clima di propaganda?

Viviamo in un’epoca nella quale le istituzioni politiche favorevoli alla guerra fronteggiano un’opinione pubblica ormai molto consapevole. Davanti a questa opinione pubblica, i poteri che incoraggiano la guerra non sembrano avere molti strumenti nuovi. Essi ricorrono a un tipo di manipolazione basata sui doppi standard nel giudicare le vittime della guerra senza considerare che il grande pubblico è ormai molto più maturo di prima. In effetti, noi dovremmo oggi cominciare a considerare non più le masse come vittime della propaganda, ma la classe dirigente come vittima di un’illusione circa il proprio ruolo.

 

 Molto spesso il discorso di pace viene liquidato come semplicista. Alla luce della sua ricerca, ha trovato qualche esempio di comunicazione del discorso di pace che sia particolarmente riuscito nella sfida di adattarsi alla complessità del suo contesto?

Finora il discorso pacifista ha coinciso con la denuncia dell’orrore. D’altra parte, se noi cerchiamo la parola pace nel dizionario questo ci dice che essa consiste nella negazione della guerra e non troviamo una definizione di pace come modo di vivere. Il punto cruciale è proprio riconoscere questa profonda difficoltà nel rinnovare il discorso di pace. La fatica di questo rinnovamento è in parte basata sul fatto che la guerra è stata storicamente legata al profitto, all’accaparramento dei beni e all’arricchimento della società. Oggi questo schema non è pienamente valido. Eppure, è necessario del tempo affinché la comunicazione possa far entrare questo cambio di realtà nel suo linguaggio. Nel libro parlo di quella che trovo sia la formula più toccante del discorso di pace fino ad ora mai realizzata:  la campagna “Hiroshima Appeals” che pubblica annualmente dei manifesti contenenti delle rappresentazioni visive del desiderio di pace che è sorto nel popolo giapponese dopo lo scoppio della bomba atomica. Il primo di questi manifesti, realizzato da Yusaku Kamekura, ci fa vedere delle farfalle in fiamme.

È un’immagine della deprivazione di vita e di bellezza che deriva dall’esplosione nucleare. L’autore ha detto una cosa molto importante a riguardo:  “Credo che un poster per la pace abbia bisogno di due cose essenziali: la poesia e il dramma”. Il dramma viene inteso come capacità di fronteggiare la realtà, quindi di non fuggire davanti agli orrori ma denunciarli; la poesia, invece, è l’attesa di vita, la ricchezza dell’esperienza umana. Io credo che in questa diade sia contenuto il germe di quello che possiamo fare in futuro: mettere insieme poesia e dramma.

Design: Taku Satoh Title: The Weight of Hiroshima

Visto che la propaganda di guerra tende a far sentire le persone o isolate o unilateralmente omologate a un pensiero dominante, come si possono costruire delle comunità che si ritrovano intorno a un discorso di pace?

Se posso tentare una previsione, io penso che il discorso di pace riuscirà ad affermarsi in modo preponderante quando saprà legarsi al mondo della produzione e del consumo. Dobbiamo ricordarci che la guerra è stata fortemente legata a tale contesto. Un discorso di pace che entra nel mondo della produzione può radicarsi più profondamente nell’esperienza e nella quotidianità umana, dove si concretizza e smette di essere un’aspirazione. Forse la nostra civiltà non è poi così lontana dal realizzare un avanzamento sostanziale nella costruzione del discorso di pace.

Un esempio di come in passato il discorso di pace sia riuscito a utilizzare il linguaggio del mondo della produzione è rappresentato dalla campagna Unsell del 1971. Tale campagna si realizzò tramite l’azione coordinata di numerose agenzie pubblicitarie americane che produssero una serie di manifesti nonché annunci televisivi e radiofonici nei quali venivano ribaltati (talvolta anche con ironia) gli schemi della propaganda bellicista che in quegli anni venivano utilizzati per promuovere la guerra in Vietnam. Alla base vi era il rifiuto dell’idea di usare la pubblicità al fine di  “vendere” la guerra all’opinione pubblica, di qui il nome Unsell.

In ogni caso la soluzione definitiva per il discorso di pace ora non c’è. Possiamo dire che ci stiamo lavorando. Nel libro racconto la traversata nel deserto dei primi che hanno cercato di costruire un discorso di pace: grafici, pittori e scrittori che hanno subito autentiche limitazioni delle proprie libertà e, in alcuni casi, una morte violenta. Tuttavia è proprio grazie a questi sacrifici che oggi abbiamo delle basi da cui ripartire e quindi spero che ci sia spazio per parlarne.