Hiroshima e Nagasaki 1945-2025: le voci eterne degli hibakusha

26/08/2025

“Io ero solo una bambina. Il cielo era azzurro quel giorno. Poi, un lampo bianco. Pensavo fosse il sole... ma non faceva caldo. Solo silenzio.”

Hiroshima, 6 agosto 1945. Ore 8:15. 

Un bagliore bianco nel cielo, poi il silenzio. Non quello ovattato del mattino, ma un silenzio che grida, che ustiona, che disintegra. È il suono muto del primo bombardamento atomico della storia. Una città svanisce in un lampo. 140.000 vite perdute solo nei primi mesi. Migliaia altre seguiranno negli anni, a causa delle radiazioni. Nella memoria del mondo resta un nome: hibakusha. 


Chi sopravvisse, come Akihiro Takahashi, portò nel corpo e nell’anima le cicatrici di quel giorno.

“La pelle si era staccata dalla mia testa e lungo la mia schiena, fino alle braccia, alle mani e alle gambe. Sembrava una processione di fantasmi. Ma io volevo vivere. E raccontare.”

In questo articolo non parleremo solo di distruzione. Parleremo di resilienza, di umanità, di coraggio. Parleremo degli Hibakusha, i reduci delle bombe atomiche, e di come abbiano scelto di non restare in silenzio.

“Hibakusha” non è semplicemente un sopravvissuto. La parola 被爆者 (hibakusha) significa letteralmente: persona colpita dall’esplosione. 

Setsuko Thurlow, premio Nobel per la Pace, ha più volte detto che il termine “sopravvissuto” non basta a descrivere l’esperienza vissuta.
È più ampia di “sopravvissuto”: include anche chi è stato danneggiato dalla radiazione o chi ha subito le conseguenze psicologiche e sociali, anche se non era presente all’epicentro. Usare “sopravvissuti” implica un confronto troppo esplicito con chi non ha avuto la stessa fortuna. Per rispetto a chi è caduto e per evitare un senso di colpa residuale, gli hibakusha hanno scelto di utilizzare un termine più neutro e inclusivo. Molti hibakusha oggi preferiscono essere chiamati semplicemente hibakusha o portatori/testimoni di memoria, evitando la parola “sopravvissuti” o seizonsha, perché non descrive la profondità del loro vissuto e il loro ruolo attivo nella memoria collettiva.

Gli Hibakusha hanno scelto di usare il racconto, non per vendetta, ma per educare. Tra le tante storie portatrici di memoria vi è quella di Sadako Sasaki e le mille gru di carta costruite per guarire dalla leucemia causata dalle radiazioni. Morì alla tenera età di dodici anni, ma la sua storia è diventata un simbolo di pace. 

“Sadako non era solo una bambina malata. Era una messaggera. Le sue gru oggi volano in tutto il mondo.”

Ogni anno, da ogni parte del mondo, vengono inviati circa dieci milioni di origami al Children’s Peace Monument, in memoria di tutti i bambini e tutte le bambine vittime della bomba atomica e come simbolo di speranza e impegno per la pace. 

E poi c’è il triciclo di Shinichi, sepolto dal padre insieme al figlio di 3 anni. Oggi è esposto al Museo della Pace di Hiroshima ed è diventato un simbolo universale dell’amore genitoriale e della memoria che resiste al tempo. Ogni famiglia ha un metodo per trasmettere la propria esperienza del bombardamento atomico. Per me, è l’immagine della schiena di mio padre mentre pregava.” dice Toshinori Tetsutani, hibakusha di seconda generazione che continua a raccontare la storia di dolore del padre e della perdita del fratello. Questi sono alcuni dei tanti simboli che sono diventati veicolo di memoria. 

Tra le testimonianze più straordinarie della distruzione atomica di Hiroshima vi sono gli hibakujumoku, “alberi colpiti dall’esplosione nucleare.” Questi alberi, appartenenti a diverse specie tra cui ginkgo biloba, kaki, salici e pini, si trovavano entro un raggio di due chilometri dall’epicentro e, contro ogni previsione, oltre 170 alberi appartenenti a circa 30 specie diverse, non solo resistettero all’onda d’urto, alle fiamme e alle radiazioni, ma iniziarono a rifiorire già nella primavera successiva.
La loro esistenza è stata oggetto di studi scientifici e iniziative culturali:tra queste, il progetto internazionale Green Legacy Hiroshima, che raccoglie e distribuisce i semi degli hibakujumoku in tutto il mondo, affinché diventino ambasciatori di pace. Insieme alle testimonianze degli hibakusha, questi alberi incarnano la memoria viva dell’evento e rappresentano una forma naturale di resistenza al tempo, alla distruzione e all’oblio. Essi, inoltre, ci ricordano quanto la natura possa essere fragile ma anche incredibilmente resistente, e ci invitano a riflettere sul legame tra uomo, ambiente e memoria storica.

 Sakuma Kunihiko, Hiroshima Peace Association riporta:

“I semi che mettiamo a dimora a Oslo e quelli che crescono a Hiroshima appartengono alla stessa famiglia. Che da questi alberelli germogli la collaborazione tra i popoli.”

Le nuove generazioni, consapevoli che il tempo riduce il numero dei testimoni diretti, stanno raccogliendo il testimone per mantenere viva la memoria. Alcuni si definiscono daini hibakusha, “secondi irradiati”, per esprimere la continuità di una sofferenza che non si è conclusa con l’esplosione.

“Mia madre non riusciva a raccontare quello che aveva vissuto, ma io ho trovato il coraggio di farlo al suo posto” racconta Yuko, figlia di una sopravvissuta e oggi attivista.

Gli hibakusha di seconda generazione, figli e figlie dei sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, portano dentro di sé un’eredità silenziosa ma potentissima: quella del dolore, del coraggio e della responsabilità. Cresciuti all’ombra di memorie non dette, in famiglie segnate da lutti, malattie e stigmi legati alle radiazioni, molti di loro hanno scelto di trasformare questa ferita ereditaria in un impegno attivo per la pace. Oggi, molti di questi eredi collaborano con la Nihon Hidankyo – la Confederazione giapponese delle organizzazioni dei sopravvissuti alle bombe atomiche – fondata nel 1956 per dare voce alle vittime e chiedere l’abolizione delle armi nucleari. La Hidankyo, che rappresenta ancora oggi una delle testimonianze morali più forti contro l’orrore nucleare, nel 2024 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace per il suo contributo instancabile alla causa del disarmo nucleare. Durante il conferimento del Nobel, il presidente del Comitato Norvegese Jørgen Watne Frydnes ha affermato che l’organizzazione ha “contribuito in modo decisivo alla creazione del tabù nucleare”, grazie alla potenza delle testimonianze dei hibakusha che aiutano a descrivere l’indicibile e a pensare l’impensabile.

“Non abbiamo visto la luce accecante del cielo, ma ne portiamo il riflesso dentro di noi”, ha dichiarato un giovane durante una conferenza promossa da Hidankyo. 

Con le loro parole, questi custodi della memoria trasformano il dolore in testimonianza e la memoria in speranza, affinché la tragedia non si ripeta mai più.

Credits: Per gentile concessione dell’Hiroshima Peace Memorial Museum

Le voci degli hibakusha e le radici degli alberi sopravvissuti non si sono spente. Parlano ancora — non con grida, ma con una tenacia sommessa, che attraversa il tempo.
Non ci chiedono di compatirli. Ci chiedono di ricordare. E, ricordando, di agire.

Perché la memoria, se non si tramanda, marcisce. Ma se la si coltiva, diventa resistenza. C’è chi raccoglie semi caduti dagli alberi di Hiroshima per piantarli nel mondo. Chi ascolta le testimonianze degli ultimi sopravvissuti e le porta in classe, tra le mani degli studenti. Chi difende la parola “pace” quando tutto intorno invita all’indifferenza o alla rassegnazione.

 

A loro — e a noi — spetta ora il compito di continuare. Con gesti semplici, ma ostinati: raccontare, ascoltare, piantare, proteggere. Ogni storia condivisa è un seme. Ogni seme che cresce, una scelta di vita contro la distruzione.