«C’era una sola parola per descrivere Hiroshima, l’inferno. Semplicemente. Giovani e ragazze vagavano nudi per la città chiedendo acqua, ancora acqua e cibo, ancora cibo. Fantasmi che vagavano in una città fantasma. Naturalmente i sopravvissuti non sapevano niente di radiazioni e contaminazione, non sapevano di essere condannati a morte. Poi alcuni giorni dopo, a volte anche un mese dopo e due mesi dopo, la gente colpita dal calore moriva. Ma prima nei punti ustionati cominciavano a formarsi moltissimi vermi, per cui questi corpi finivano per assomigliare piuttosto a cibo guasto che a esseri umani. Ma il ricordo più tragico che conservo personalmente è quello della distruzione totale provocata dalla bomba o meglio della scomparsa dalla faccia della terra di un uomo davanti alla porta di casa sua: non era rimasto che un’ombra sulla porta e nient’altro, niente. Un uomo era sparito, evaporato: solo un’ombra ricordava che era esistito».
(N. Fukuda, da L. Castellani, La grande paura, Eri, Torino 1984, p.37).