Polacco e di origini ebree, Joseph Rotblat di famiglia caduta in miseria a causa degli eventi della Prima guerra mondiale, soffrì la fame vera come lui stesso ha più volte raccontato. Ma non si diede per vinto e riuscì persino a vincere una borsa di studio presso il Laboratorio di Chadwick, a Liverpool, proprio nel marzo del ’39. Lasciando la Polonia, sfuggì alla sorte degli ebrei polacchi, quasi completamente sterminati. Il pensiero che Hitler potesse ottenere la bomba era per lui insopportabile. Ma anche l’idea di usare la sua scienza per costruire un’arma di distruzione di massa gli era insopportabile. Quando però scoppiò la guerra e Hitler soggiogò rapidamente gran parte dell’Europa, impedendo così alla sua amata moglie di raggiungerlo e condannandola all’orribile sorte degli altri ebrei, Rotblat non ebbe scelta: dapprima iniziò ad esplorare, già dal novembre del ’39, con Chadwick e altri, in Inghilterra, la possibilità concreta di realizzare un ordigno, quella stessa possibilità che aveva cercato “di espellere dalla sua mente”, fin dal tempo in cui, nel suo laboratorio, replicando gli esperimenti della Meitner e di Frisch, dedusse, per via teorica, ma in base a dati sperimentali di prima mano, la possibilità concreta di una reazione a catena. E comunque si decise a lavorare all’ordigno solo ed esclusivamente con la finalità di “prevenire il suo uso”, da parte di Hitler, qualora anche i Nazisti lo avessero mai realizzato. Gli scienziati britannici resisi però conto dell’immane sforzo industriale necessario a realizzare un vero ordigno, nel 1941 inviarono uno di loro dai colleghi americani. Questo “scatenò una catena di eventi” che convinsero Roosevelt ad intraprendere l’immane impresa di costruire la bomba. A quel tempo quasi tutti gli scienziati, almeno ufficialmente, si motivarono attraverso l’idea della “deterrenza”. Idea che nacque quindi ancor prima della bomba stessa anche se con finalità ben diverse da quelle che poi avrebbe avuto durante la Guerra Fredda e in seguito. Quindi andò egli stesso a Los Alamos e lavorò sodo nel Progetto Manhattan.
In seguito, la possibilità di accedere ad informazioni riservate, fece progressivamente maturare in lui una decisione clamorosa, di straordinaria coerenza: “Il momento decisivo per me arrivò nel marzo del 1944. All’epoca vivevo in casa del professor Chadwick, e di tanto in tanto il generale Leslie Groves che era il capo militare del progetto, veniva a trovare i Chadwick. Nel corso delle conversazioni che avevano luogo durante quelle visite, Groves ci riferiva le voci che correvano nei vari circoli militari. Una volta disse che il vero scopo della costruzione della bomba era, ovviamente, soggiogare l’Unione Sovietica. Forse non furono esattamente le sue parole, ma il significato era quello. A sentire quelle parole avvertii un acuto senso di tradimento […] al pensiero che sul fronte orientale ogni giorno migliaia di soldati sovietici morivano allo scopo di sconfiggere l’esercito tedesco. […] Poi, a ottobre, Chadwick venne a sapere che le ultime notizie dall’agenzia di spionaggio confermavano che i tedeschi avevano interrotto il loro programma atomico; questo tagliava la testa al toro. Mi resi conto di non avere più alcuna ragione di rimanere al laboratorio di Los Alamos. Inoltrai immediatamente la richiesta di tornare in Inghilterra”.
Rotblat lasciò Los Alamos nel dicembre del ’44, tornò in Inghilterra e non seppe più nulla di quello che succedeva all’interno del Progetto. La sera del 6 agosto 1945, fu la BBC a raccontargli l’epilogo della storia che aveva vissuto a Los Alamos, in prima persona.
(Le frasi di Rotblat qui citate sono tratte da Joseph Rotblat – Daisaku Ikeda, Dialoghi sulla pace. Dalla scienza della guerra a una cultura di pace, Sperling & Kupfer, pp. 68 e 70. Gli altri fatti riportati sono tratti dalla video intervista rilasciata da Rotblat l’8-4-2004 a Imogen Kusch e Steffan Boje per Riccardo Antonini nell’ambito del progetto europeo “E se Faust potesse dis-inventare la Bomba Atomica”).